giovedì 30 aprile 2020

L'ANGOLO DELL'OSSERVANZA


 

 

Trascorreva gran parte della giornata ad abitare nell’altrove del suo tablet o praticare il rito dell’osservanza attraverso la vetrata di un bar; invisibile e silenzioso, aveva messo tra se e gli altri uno schermo totale. Cos'era in fondo il distanziamento di cui parlavano? Si era allenato tutta la vita all’isolamento, non aveva bisogno di una giusta distanza. Per lui non esisteva distanza più giusta della sua.
Negli ultimi vent’anni, la sua vita si era estesa fino ad abbracciare continenti nei quali non avrebbe mai messo piede: prima era apparsa la realtà aumentata del Wi-Fi domestico, i tablet, gli smartphone, poi era arrivato anche quel piccolo bar, che pareva una contraddizione, ma lo schermo era schermo, comunque lo si chiamasse. Era stata la scoperta più entusiasmante della sua vita, gli aveva permesso di stare tra la gente senza partecipare concretamente alla loro vita, senza che gli venisse chiesto un contatto fisico, uno scambio emotivo, un’opinione. Tranne il barista, che lo faceva per professione, nessuno gli rivolgeva mai la parola. Si considerava l’ultimo testimone. Solitamente, messo via il tablet prendeva il suo Moleskine nero, una penna a inchiostro liquido e attendeva che oltre le vetrate, nell’acquario metropolitano, iniziasse la sfilata dei suoi pesciolini urbani.
Oggi, però, non era un giorno come gli altri. 

Corporatura minuta, pelle olivastra, uno sguardo tra il triste e il rassegnato, Leela (l’aveva chiamata così, in omaggio al romanzo di Hari Kunzru) la ragazza che sedeva sul sagrato della chiesa, non era lì. Non c’era neppure il posteggiatore africano, con il suo carico di fazzolettini, accendini e pezze per la polvere. Lo aveva chiamato Zuri, come il paese le cui strade erano diventate un lago, perché aveva saputo in Africa essere un nome proprio di persona.
Il ragazzo che svuotava i cesti dell’immondizia, il commesso del negozio di ottica, il libraio, le ragazze della cartoleria, la signora Adele della merceria, il piazzaiolo egiziano erano gli attori fissi delle sue storie, quelli che occupavano sempre la stessa posizione, ogni mattina, ogni giorno e oggi non erano lì. Eppure c’era Padre Carmelo, che inspiegabilmente solitario puliva gli scalini della chiesa.
I suoi preferiti erano quelli in transito: liceali, insegnanti, artisti, gli impiegati del palazzo di giustizia, i custodi del museo, anche loro oggi non c’erano. Passavano solo i figuranti e le comparse, quelli occasionali. Guardava amareggiato quelle strade desolatamente vuote, il traffico automobilistico che lo aveva agitato poco prima si era dissolto, una certa frustrazione stava prendendo il sopravvento. Dov’erano finiti, tutti?
Sul marciapiede opposto una ragazza con mascherina e guanti in lattice si trascinava dietro un carrellino della spesa; qualcuno con il cane camminava lento, fermandosi ad ogni aiuola, motorino, palo della luce -ricordava quando i cani dovevano arrancare dietro ai loro padroni sbrigativi, annusare di fretta e altrettanto di fretta liberarsi la vescica-; un tizio in tenuta sportiva, mai visto prima, camminava a passo veloce, totalmente sconosciuto.
Non erano i suoi personaggi, non quelli che aveva osservato ogni giorno. Erano estranei. Dov’era finita Luisella la ragazza con i capelli verdi che camminava a testa bassa concentrata sulla playlist del suo smartphone? Dov’erano Gianpiero e Sergio i brufolosi liceali vestiti come due giocatori di basket americano? Dov’era il giudice ingobbito dal peso della sua borsa? Dov’erano?
Aveva deciso di appuntare i nomi degli assenti, poi, cercare di dare un volto a quelle nuove figure, un volto a metà, senza bocca e senza naso.
Si era imposto di catalogarli tutti, sempre, ogni giorno, il cambiamento non avrebbe corrotto il progetto. Avrebbe disegnato anche i nuovi camminatori. Era questa l’ultima pagina del suo diario? Si chiedeva. Ora come ora, non poteva dirlo.
Abbassata la testa, aveva iniziato a tracciare i contorni del carrellino per la spesa.


Dalle medie l’aggeggio elettronico aveva incarnato il passe-partout dei suoi desideri, che fosse musica, film, videogiochi, chat, sport. Attivato da un impulso elettrico, attraversato dai dati trasmessi in onde radio verso ogni luogo, aveva rappresentato un lasciapassare tascabile direzione il mondo intero. Per lui, il tablet era stato un vero e proprio portale aperto verso gli altri. I sociologi definivano il suo un “isolamento sociale”, quelli come lui li avevano chiamati in vari modi Otaku, Hikikomori come se un nome esotico cambiasse qualcosa. A dire il vero non si riconosceva per niente in quelle definizioni, non riteneva di avere niente in comune con quei ragazzi chiusi nelle loro tane. Per via dell’effetto “vicinanza a distanza”, che internet consentiva, non si era mai sentito così associato come in questo momento.
Non andava a cena fuori, al cinema, erano anni che non abbracciava qualcuno, ma non era certo questa la vicinanza, ed era consapevole essere altre le distanze. Non era un recluso credibile, non nel senso che si dà comunemente a questo termine, infatti, per quanto la tavoletta delle meraviglie soddisfacesse le sue esigenze, non le esaudiva tutte, perciò da qualche anno aveva attivato una specie di streaming a grande schermo, una distanza differente, moderna eppure antica, la flânerie sedentaria: frequentava un bar, a cui si recava ogni mattina.

Sempre lo stesso tragitto. Testa bassa, pollici a ritmo alternato sulla tastiera e, via. Non gli serviva altro. Anzi, no. In realtà, c’erano alcuni particolari da perfezionare, come ad esempio coordinare il ritmo dei pollici con l’andatura dei piedi. Nei momenti più concitati, accadeva che durante la scrittura di un testo particolarmente acuto, tendeva ad accelerare il ritmo dei pollici e di riflesso riduceva l’incedere dei piedi. Spesso, questa decelerazione involontaria modificava i tempi di percorrenza che si era dato e lo mandava in confusione.
Quella mattina, ad esempio, per via dell’incapacità di scrivere e camminare simultaneamente, aveva modificato la sua consueta andatura, per natura già alquanto fiacca, ed era arrivato al semaforo nel momento stesso in cui scattava il rosso. Imperdonabile. Era proprio per ovviare a questi incidenti, che tempo prima aveva cronometrato i tempi di percorrenza dalla sua abitazione a tutti i semafori che incontrava durante il tragitto e, tracciato un cammino calibrato sulla sua andatura, così da arrivare preciso allo scattare del verde. Questo sistema avrebbe dovuto rappresentare l’antidoto agli ostacoli, ma non sempre funzionava.
In qualche modo doveva recuperare il tempo perduto. Non poteva fare tardi, non oggi.
Quasi a voler riscattare una vita di totale remissività, al contrario delle altre, questa volta si era ripromesso di provare un azzardo: non obbedire allo stop. Spinto da un impulso infantile, con l’incedere entusiasta del cucciolo di labrador sguinzagliato, aveva deciso di non fermarsi, anzi, accelerare il passo e quasi correre. Si era lanciato ansimante al centro della carreggiata come uno leprotto di fronte ai fari di un’auto per ritrovarsi smarrito a metà attraversamento pedonale, accerchiato da SUV, motorini e utilitarie incazzate. Per una frazione di secondo aveva alzato le mani, poi, preso atto che non sarebbe mai riuscito a passare dall’altra parte, con respiro affannoso e battito accelerato, per giunta sollecitato dal segnale acustico di una lunga fila di automobilisti nervosi, era saltellato all’indietro e rientrato al punto di partenza.
Si era sentito avvilito per non essere riuscito nell’impresa, ma allo stesso tempo orgoglioso per averci almeno provato.
Era un uomo incline alla riflessione, non aveva un’indole temeraria, pertanto, era cosciente che infrangere le regole sociali del semaforo era stata un’imprudenza che non gli apparteneva. Rassegnato, avrebbe atteso che l’omino rosso sull’attenti, quello che nel linguaggio universale metropolitano significava FERMO! svanisse e come per magia comparisse l’omino verde a gambe divaricate che dice VAI!
Sarebbe arrivato in ritardo. 
Giunto all’ingresso, aveva subito constatato che qualcuno si era seduto sulla sedia del tavolino ad angolo, il suo preferito. Negli anni, aveva appreso trattarsi di un posto molto ambito, desiderato dalla maggior parte dei clienti del bar, compreso lui, il quale lo considerava la sua postazione privilegiata. Ritardare significava fare colazione in piedi e uscire. Se il tempo era buono, aspettare fuori in attesa che l’intruso si alzasse, altrimenti rinunciare.
Da quel cantuccio aveva una visuale quasi completa dell’intorno, vedeva tutti e in tutte le direzioni. Una sorta di palco reale, effetto cinemascope, la sua vista favorita sulla realtà.
Doveva riconquistare l’angolo, poiché oggi avrebbe svolto l’ultimo esperimento di flânerie sedentaria.
Per via dell’isolamento sociale a scopo sanitario sancito dal decreto ministeriale Tutti a casa, a partire dalla data odierna bar, ristoranti, attività ludiche di aggregazione sociale, avrebbero chiuso a tempo indefinito. La pandemia, con le sue regole di distanziamento e l’obbligo alla domiciliazione lo avrebbe ancora una volta respinto nella sua tana. Aveva deciso di aspettare. Forse quel cliente sarebbe andato via.
Il bar si trovava all’incrocio di grandi arterie viarie, aveva bellissime vetrate ad angolo da cui si potevano vedere gli studenti dell’Accademia attardarsi con le cartelle sotto braccio, gli impieganti e gli inseganti contendersi i pochi parcheggi ancora liberi, gli avvocati e i magistrati, carichi di incartamenti, incamminarsi come sherpa sulla collina, verso il tribunale, poi c’erano quelli che passavano per una preghiera mattutina alla parrocchia dell’angolo e tutt’intorno liceali vocianti, ognuno diretto alla propria scuola. Dagli abiti poteva immaginare le professioni, le aspirazioni, i fallimenti. Immaginare vite. Si poteva perdere a guardare quell’acquario fatto di pesci urbani, di persone in affanno verso un impiccio e trattenersi fino all’ora di pranzo senza rendersi conto del tempo trascorso.
Fatta eccezione per i giorni in cui aveva ritardato, erano anni che li vedeva passare. Non conosceva nessuna di quelle persone, ma li aveva nominati tutti: a ciascuno il nome più appropriato, adatto al ruolo, all’abbigliamento, alla professione. Scriveva tutto sul suo taccuino, accompagnava i testi a veloci schizzi, in alcuni casi, tracciava più dettagliati ritratti. Aveva accumulato centinaia e centinaia di volti, atteggiamenti, costumanze, trasformazioni. Nel tempo poi, i liceali si erano diplomati, gli adulti andati in pensione, alcuni studenti erano passati dall’altra parte come professori, avvocati, impiegati. Li aveva visti trasformarsi, cambiare abbigliamento, stile, accompagnare i figli all’asilo, a scuola, invecchiare. Alcuni, negli anni erano scomparsi, avevano forse cambiato strada, lavoro, scuola, qualcuno forse era defunto. Erano tutti inconsapevoli componenti della sua famiglia virtuale, parte integrante della sua vita.
Aveva fatto uno schizzo veloce di Padre Carmelo in versione inserviente: col saio, i saldali, quanti in lattice e mascherina. La ragazza con il carrellino l’aveva chiamata Valeria, mentre avanzava lungo il viale ne aveva tracciato sommariamente i tratti a figura intera, una sagoma scura senza volto, poi mentre si avvicinava aveva catturato alcune caratteristiche come le orecchie, gli occhi. La bocca e il naso poteva solo immaginarli, la mascherina copriva completamente il volto. Al contrario dei suoi soggetti storici, di lei non avrebbe potuto catturare i cambiamenti stagionali nell’abbigliamento, i tagli di capelli nel corso degli anni. Uscita dalla sua visuale, l’aveva lasciata andare, ed era passato al tizio col cane, poi al runner.
La giornata era finita così: sagome senza volto e ombre silenziose.

Arriveranno i giorni della riapertura e i suoi attori lo ritroveranno qui, nell'angolo dell'osservanza, testimone.
 

martedì 24 marzo 2020

LA FILA

 

Il piazzale è occupato da una strana fila. Non una vera e propria fila, è piuttosto un lungo serpentone che si produce in due, tre curve, poi ad certo punto compie una parabola per immettersi sotto i portici e infine dirigersi verso il negozio. Una coreografia d’autore.
Sto qui, a un metro  e ottanta dagli altri. Gli altri: alcuni hanno la mascherina, mascherina e guanti in lattice, come me. Una signora indossa guanti di lana e sciarpa, pare in partenza per un'escursione. Ci si arrangia come si può, immagino. Si chiama distanza sociale.
Qualcuno ha portato le sportine da casa, altri hanno il carrellino personale poi c'è chi usa il carrello del supermercato. In prossimità del portico due anziani chiedono: “Chi è l’ultimo?”, come dal medico. E, si siedono sulle panchine sotto le arcate. Vedendoli così inquieti mi scopro a pensare: “Non hanno in famiglia un parente che gli eviti questa pena, che gli impedisca di esporsi al virus?” Evidentemente no. Li lascio passare avanti, tanto a me che cambia (Verrò a sapere, dalla cassiera, che fanno la spesa due o tre volte al giorno).
Un ragazzo si sposta di lato, parla al telefono con la mamma, un aggiornamento lista della spesa <<più latte, farina, ricorda l’amuchina, no, le zucchine, non prenderle!>> (Novizio alle incombenze domestiche. È lo stesso che vedrò nel panico di fronte al sedano).
Un tizio mette su “L’anno che verrà” di Lucio Dalla. Qualcuno fa il coro. Per il resto un silenzio composto, come ai funerali, però, meno triste, più una sorta di dignitoso rispetto. Gli smartphone hanno trasformato tutti in dj. Mi ha messo allegria.
A contingentare gli ingressi c’è una simpatica guardia giurata, con cui scambio qualche impressione. E, mentre aspetto il mio turno, ripenso ad un raccontino che riscrivo da alcuni anni e non riesco a chiudere. Anche lì c’era una fila, guanti e mascherine, tra gli attori una specie di cerimoniere degli ingressi. Fa parte di una serie di racconti che ho iniziato a scrivere tre anni fa. Ci sono tornata sopra più volte. Negli anni, ho fatto leggere le prime versioni imperfette, confuse a qualche amica/o. Poi l'ho lasciato decantare, assieme agli altri.
Oggi, ho deciso di correggerlo, fidandomi del mio istinto, e pubblicarlo sul blog. Pertanto, a coloro che vorranno leggerlo, propongo una fila immaginata prima, quando mai avrei pensato alla distanza sociale, intesa come la stiamo vivendo in questi giorni o al realizzarsi nel quotidiano di certe fantasie alla “Black Mirror”.
L’obiettivo della storia era raccontare il ridicolo che è in noi, ridere delle cerimonie dell’arte contemporanea, niente di più. L’idea della fila, infatti, mi è venuta pensando a “The Floating Piers” di Christo, la coda lungo la piattaforma galleggiante sul lago di Iseo e alle persone in attesa di “The Artist is Present” di Marina Abramovic. Il tema è quello della meta irraggiungibile, con conseguente sentimento di frustrazione, ispirata ai cartoni “Wacky Races”, quelli di Dick Dastardly e Penelope Pitstop.
 
Per il momento niente mostre, solo video e conferenze on line.
In futuro, quando ci re-incontreremo in fila per Tomàs Saraceno, Raffaello o Martin Parr, diremo: “Ti ricordi, quei tempi, quando si poteva uscire soltanto per portare il cane a pisciare e, al supermercato si faceva la fila a serpentone, distanziati a un metro l’uno dall’altro?”
Per ora, buona lettura.
 
 
La Fila (Wacky Races)

Lungo il marciapiede, si accalcava una folla informe e, man mano che questa si avvicinava all’ antico palazzo, incredibilmente si ricomponeva in una fila ordinata. A vederla dal balcone, la scena sembrava il consueto procedere dei turisti verso la biglietteria del museo, niente di particolare, semplicemente quello che accadeva ogni giorno, tutti i giorni dell’anno.
Tra quei giovani mi era parso di vedere una coppia di anziani. Lui era uno di quei soggetti nervosi, senza posa, ogni tanto allungava il collo verso lo smartphone del tipo che gli stava davanti, poi si spostava di lato, uno o due passi, soltanto per verificare che tutti stessero rispettando l’ordine di arrivo, poi, rientrava in fila e, rifaceva altri due passi, sul lato opposto. Immagino per verificare il numero di persone prima e dopo di lui.
- Aleardo hai notato? I primi della fila guardano in faccia gli ultimi, che trovata simpatica! - Diceva lei. - Sì, sì… - rispondeva vago, distratto dai vicini di coda. Poi ancora due passi di lato, dava una sbirciatina e rientrava al suo posto.
Un strano movimento aveva attirato la sua attenzione: alcune persone procedevano disinvolte verso l’ingresso, mostravano semplicemente lo schermo del proprio telefonino ad un tizio in tuta arancione e, andavano avanti.
Il tizio con la tuta, sembrava uno di quei detenuti dei film americani. Il fatto lo innervosiva. Non il tizio con la tuta, sia chiaro, ma quelli che passavano con il telefonino in bella vista.
- Buongiorno a voi, sono il vostro custode. Benvenuti alla Presenza, l’evento dell’anno. Durante tutta l’esperienza sarò coadiuvato da alcuni assistenti. Per ogni necessità potete contattarli. Si trovano lungo la fila a vostra disposizione. Li riconoscerete dalla divisa arancione.
Ecco qui svelato il mistero, che aveva così tanto entusiasmato la signora Ortensia, la fila era in realtà un cerchio. Gli ultimi arrivati potevano parlare con i primi. A dividerli solo una coppia di separatori in metallo chiusi da un cordoncino rosso. Un custode, vestito come un portiere d’albergo, istruiva gli avventori. A contingentare gli ingressi, assistenti in tuta arancione.
Presenza era l’ultimo progetto di un’artista che si faceva chiamare Cosa. A distinguerlo era l’invisibilità. Negli ultimi anni si erano fatti molti nomi e ipotesi, circa la sua identità. Le operazioni artistiche erano state attribuite di volta in volta ad artisti viventi e, addirittura, ad artisti oramai defunti. Qualcuno aveva persino ipotizzato che dietro il nome operasse una multinazionale specializzata in grandi eventi, altri pensavano ci fosse un artista di stampo accademico, un pittore neo-neo-macchiaiolo avviato verso una decisa battaglia contro l’arte contemporanea. Le informazioni relative al progetto erano scarse, quasi note a piè di pagina. La sua identità non era l'unico aspetto ignoto. Nessuno sapeva in cosa consistesse la Presenza. Ne erano all’oscuro persino i dipendenti del Museo. Tutto era avvolto dal mistero.
Aleardo non sapeva, che "Il Museo, a tutti i visitatori muniti di prenotazione, garantisce l'opportunità di saltare la fila. E' sufficiente scaricare una App." In realtà non erano in molti a coglierla. “L’esperienza è parte dell’evento” - diceva il dépliant – “si completa proprio stando in fila.” Erano fermi nello stesso punto da ore. Molti erano accorsi esclusivamente per esserci e postare le foto sui social.
La condivisione sociale era diventata il centro delle attività quotidiane di ogni cittadino munito di un dispositivo connesso ad una rete. La chat di gruppo considerava gravissimo non postare immagini in tempo reale. Pena l'isolamento.
 
- Sono entrati tutti, noi no. Ecco, vedi quelli ci passano davanti! - poi rivolto all’assistente in tuta arancione - Li fa passare prima di noi? Siamo venuti apposta dal paese per vedere la mostra, non siamo meno di quelli lì!
- Capisco. E’ possibile entrare solo due per volta, la fragilità dell’evento non permette troppi visitatori contemporaneamente. I signori hanno preservato da almeno due mesi. Voi avete preservato? Mi dispiace è un’opzione che il Museo concede a tutti. Potete scaricare la App di Cosa e preservare.
- App di Cosa? Preservare? Ma cosa vuol dire? Non so niente, io! Ma come parla questo qui! Bella roba, si tratta solo di amici degli amici, ecco cos’è!
- Aleardo! Chetatiti! Che vergogna!
- E’ da ore che siamo qui a fare la fila sotto il sole! Mia moglie ha le vene varicose, lo sa lei?
- Aleardo ti prego, mi fai fare sempre brutta figura. Lo scusi.
Il custode nel frattempo consegnava ad ogni visitatore un sportina di cotone, con il logo dell’evento, contenente una serie di oggetti. Con un fare piuttosto meccanico ne illustrava l’uso. Lasciava passare i visitatori a due a due, le famiglie e i gruppi venivano cordialmente invitati a non protestare, del resto il disagio era minimo. Nell’attesa tutti chiacchieravano e si scambiavano informazioni.
Più o meno a metà della fila due giovani ragazze leggevano il dépliant della mostra cercando di farsi un’idea di ciò che sarebbero andate a vedere. Appena diplomate dall’Accademia, speravano di scoprire qualcosa del mistero dell’anno, magari essere le prime a conoscere la vera identità della Cosa.
- Che c’è scritto nel pieghevole?
- “Il Palazzo ospita una grande mostra che celebra il maestro indiscusso della dissimulazione contemporanea. Il percorso espositivo unitario tra l’ampia corte e il piano Nobile ripercorre la carriera dell’artista… accompagnati attraverso l’esperienza di immersione tra spazio, immagine e suono, dalle prime sperimentazioni degli anni Settanta fino alle recenti grandi opere” …
- Dice qualcosa a proposito della Presenza?
- Ehm aspe’… “internazionalmente riconosciuta… persone volti e corpi… esplorando spiritualità… forze opposte ed energie” … rigirava tra le mani il libricino, scorreva con il dito tra le righe …” nulla garantisce la sua esistenza” …bla bla … ” smaterializzazione dell’oggetto artistico”…bla bla…
- Della Presenza non dice proprio niente?
- Niente.
- Dai a me… ”Perché l’esperienza sia profondamente emozionante è necessario che il pubblico non abbia nessuna conoscenza.” Non dice niente. E’ vero!

Il custode continuava a far passare i visitatori e consegnare sportine. Il rito era molto preciso, scandito da un tempo regolare e sempre lo stesso testo. Se avessero sostituito il custode, con un distributore automatico munito di voce sintetizzata, il risultato sarebbe stato identico.
- …altri due, prego. Ecco a lei il visore, i guanti… la mascherina … avete già indossato le soprascarpe usa e getta? Vi ricordo che la visita Ecco il pass…
Nonostante lo sforzo era tutto piuttosto disordinato. A metà fila però qualcosa interrompeva il disordine, tutto riacquistava nuovamente una dignità. C’erano due giovani biondi e cerulei, stavano seduti sopra minuscole seggioline da pescatore e leggevano assorti un e-book su dispositivi digitali. Mettevano soggezione. Arrivati nelle loro vicinanze, quelli in fila di solito abbassavano la voce e si davano un tono.
Sembravano preparati ad affrontare una lunga fila, erano attrezzatissimi.
Poco distanti due inseganti di un liceo artistico conversavano sulle sorti dell’arte contemporanea. O meglio, uno parlava e l’altro fingeva di ascoltare. Erano ad un punto della fila, che faceva da snodo tra quelli con la App e gli altri, gli sperimentatori dell’esperienza.
- Matteo hai letto gli appunti che ti ho passato sullo stato dell’arte?
Matteo era sbiancato, come uno dei suoi studenti beccato a non aver fatto i compiti. - Oddio, no! - Matteo non li aveva proprio letti. Li aveva posati sulla scrivania, mesi prima. Ora, giacevano sepolti sotto centimetri di fogli, cataloghi, fotocopie e libri.
- Mi rinfreschi il contenuto? Ultimamente passo da una lettura all’altra e ho un po’ di difficoltà a ricordare. Un accenno? Sicuramente mi viene in mente qualcosa.
In queste circostanze i professori ritornano spesso studenti. Non era un pessimo insegnante, anzi, piuttosto apparteneva alla categoria dei mai cresciuti.
- Ma come, dai, non l’hai letto? E’ l’introduzione al libro sullo stato dell’arte. Ne abbiamo parlato tanto!
Gli occhi di Matteo fissavano il vuoto, terrorizzati, come avessero visto la testa di Medusa. Non credeva nell’arte contemporanea. Era di quelli che pensano all’arte greca come il punto più alto della creatività e della bellezza. Accettava gli inviti a questi eventi solamente perché erano frequentati da giovani artisti, soprattutto artiste. Ne aveva già adocchiate due, avanti a loro nella fila. - Si potrebbe andare a bere qualcosa, dopo sta palla! - rimuginava – Il prossimo obiettivo è individuare una strategia di fuga! Primo: zittire “l’antico Paoletti”, secondo avvicinarsi alle due gnocche, terzo …
- Mi piacerebbe avere il tuo parere, come ti ho già accennato, in quest’epoca così complessa e allo stesso tempo decadente, se un settore della cultura si giustifica come esclusivamente fine a se stesso e, la filosofia e le arti figurative ormai hanno pressoché raggiunto questo stadio, è possibile che la società lo mantenga ancora in vita. E’ questo il centro del problema…
- Va beh! Mi arrendo
- …Noi non dovremmo attenderci più nulla da esso! Teniamo in vita artificialmente l’arte e in alcuni casi anche la filosofia, che diciamocelo chiaramente, si è sostituita ad essa.
- Ah! sì, ho chiaro il punto. - non aveva assolutamente idea di cosa stesse parlando.
- In una società come la nostra l’arte e filosofia sono costrette o divenire rumorose e a vivere provocando l’opinione pubblica. Vedi quelle due? - Rivolto alle due amiche artiste - Esattamente così, sguaiate e vuote.
- Vuote? - aveva pensato – Come vuote, piene, piene, altro che!
- Oppure, l’alternativa era parlare con voce sommessa e isolarsi, come quei due lì. - Rivolto ai due inglesi, assorti nella lettura. - Traggono da sé i propri motivi, senza alcuno scambio con la società o altri settori della cultura.
- Ehm vuoto, sì - ciondolava come per annuire e, intanto guardava altrove. Non aveva alcuna voglia di sentire la lezione del suo collega. Voleva arrivare al punto, vedere la mostra e passare un pomeriggio al bar. Non sapeva assolutamente niente di Cosa e della sua Presenza. Infondo era un insegnante di disegno geometrico, porca miseria!
Aveva notato che le due ragazzette si sbattevano per avere informazioni sulla mostra. - Qualunque informazione poteva essere utile per abbordare quelle due. - Bruscamente aveva detto - Scusa se cambiamo discorso, ma questo tizio, la Cosa, lo conosci, chi è?
- Mah, non saprei. Ho ricevuto la comunicazione dal museo, via mail, come sempre. Ero curioso di vedere la mostra. Ma allora ti interessa?
- Ah! Non lo conosci, eh! Qualcosa che non conosci, c’è!
- Le note stampa sono generiche, potrebbero riguardare qualunque mostra degli ultimi trent’anni. C’è una grande difficoltà a parlare della pittura, c’è una grande difficoltà a vederla, come dice Baudrillard, “nella maggioranza dei casi, non vuole più essere guardata, bensì visualmente assorbita, vuole circolare senza lasciare traccia”.
- Ancoraaaaa! Che palle! – pensava senza avere il coraggio di dire apertamente che non ne poteva più di quel saccente. Lo sguardo andava alle gambe, piedi scalzi e capelli al vento delle ragazze - Speriamo che questa fila finisca presto. Che piombo! Magari ci beviamo una birretta.
Intanto la fila scorreva, il custode continua nella sua litania… - … siete pregati di indossare l’apposita mascherina gialla. Grazie per la vostra pazienza. Ecco il pass…
Le due ragazze ridevano e facevano battute. Una indossava una canotta di seta con minigonna di jeans, decorata alle giunture con cristalli Swarovski, pareva uno straccio, ma doveva essere di un’importante stilista. L’amica indossava un vestito a fiori lungo fino ai piedi, una fascia etnica teneva compatti, tipo un nido, una massa enorme di dreadlocks color fieno. Erano entrambe scalze.
Oramai, la tensione si faceva strada anche tra i più tranquilli di loro.
- Che fa spinge? – Aveva detto Paoletti, rivolto al vecchio Aleardo che cercava di farsi valere dopo ore di fila. Non ne poteva più di sentire discorsi pallosi, e soprattutto la litania del custode.
- Non faccia il finto tonto, lei era dietro di me.
- Mi avvicinavo al mio collega per sentire meglio. Tra le sue urla, quelle due straccione che cantano e parlano a voce alta, riuscirò a concludere una frase? Ma guarda questo!
- L’ho capita, lei. Con la scusa della preservazione e della app, passate tutti davanti. Io, da qui non mi muovo. Era dietro di me e ci rimane!

Le conversazioni erano quasi sempre a due, riguardavano gli argomenti più svariati, ma a prevalere erano quasi sempre quelli più condivisi in rete.
Li vicino c’era un’altra coppia. Lei, Laura, non aveva molto senso dell’umorismo e quasi mai si poneva l’obiettivo di distinguere tra i momenti impegnati e lo svago. Era interessata solo ai destini del mondo. Pareva avesse anche la ricetta per risolverli. Lui, Gianni, era un musicista. Lavorava come tecnico del suono. Aveva una sala prove, con studio di registrazione, che affittava ad ore. Interessato all’arte, a tutto quello che ruotava nell’ambito del contemporaneo: performance, arte urbana, arte relazionale.
Lorianna, li aveva riconosciuti.
- Chiedo a quei due. Lei lavora in biblioteca, ne sa due strisce!
- Scusate se vi disturbo, noi ci conosciamo, ci siamo incontrare al work shop sulle Insurgent city[1], volevo un’informazione.
- Parli con me?
- Sì, mi chiedevo sapete qualcosa a proposito della mostra?
- Ah! Sì, E’ una retrospettiva simulata. L’artista ha chiesto ad alcuni giovani studenti di realizzare ex novo le sue più famose installazioni.
Aveva risposto Gianni, che aveva voglia di cazzeggiare un po’.
- Non ci sono gli originali?
- No. Temo proprio di no. Tra l’altro, a quanto pare, gli studenti dell’Accademia si sono rifiutati di copiare tout court le opere, avrebbero voluto aggiungere qualcosa di nuovo, ma non gli è stato consentito. Non sappiamo bene cosa abbiano esposto. Forse lo spettro dell’opera.
Laura aveva pensato di puntualizzare, nel caso Gianni non fosse stato abbastanza chiaro - Le idee come entità autosufficienti. – aveva precisato.
- Idee autosufficienti? Ah! Capisco.
Oddio – aveva pensato - avrei dovuto seguire le lezioni su Derrida, invece di andare in cortile a farmi le canne!
- Questo potrebbe permettergli di raccontare il nulla per mezzo del nulla stesso - aveva concluso Gianni, divertito.
- Grazie, siete stati molto gentili. - Si era allontanata più confusa di prima.
- Cosa hanno detto?
- Boh! Hanno detto che forse sono esposte le idee.
- In che senso le idee?
- Lo spettro dell’opera, ha detto lui. Ma forse mi prendeva in giro, ridacchiava.
- Lo spettro dell’opera? Lo sapevo! Ecco dovevamo seguire le lezioni di Derrida. Adesso avremmo capito qualcosa!
- E’ quello che ho pensato anch’io, mannaggia! Dice che è raccontato il nulla per mezzo del nulla stesso.
- Pure! Stai scherzando? Siamo in piedi da stamattina per vedere il nulla?
- Non so se è proprio così, ha detto che l’artista ha chiesto ad alcuni giovani studenti di realizzare ex novo le sue più famose installazioni, forse ci sono queste?
- E noi siamo qui da quattro ore per vedere delle copie? Magari fatte da Gesuino Pistis, il più coglione del corso di scultura.
Una velo di malinconia le aveva rabbuiate.
L’asfalto bruciava. Si erano rimesse le scarpe.
Non avevano nessuna intenzione di farsi rovinare la festa, avevano acceso l’MP3, un auricolare a testa e messo su Baustelle “Charlie fa surf”.
Ci sono persone che sanno affrontare con leggerezza anche i momenti di frustrazione, Siria e Lorianna appartenevano a questa categoria.
Nel frattempo la coppia di coniugi continuava la fila.
- Non mi chiedere più di venire a vedere mostre consigliate da quella tua amica scema che si crede un’intellettuale! Ti ho detto che se non ci sono quadri non ci vengo più! Di queste cose che si odorano, si strusciano, si ascoltano in quella specie di cabine sonore ne ho piene le tasche, va bene? Se non ci fanno passare, entro mezz’ora andiamo via.
- Ottuso! Non hai un minimo di curiosità? Poi non è vero che è tutta roba che si odora, struscia e quelle cose lì. L’altra volta le sculture tutte d’oro ti sono piaciute, mica ti hanno chiesto di annusare o strusciare?
- Per una volta che c’era qualcosa di comprensibile! Comunque la maggior parte è robaccia, io capisco quel che capisco, va bene?
I due inglesi non avanzavano di un centimetro e proseguivano la lettura del loro e-book. Pochi avevano notato che indossavano esattamente gli stessi abiti, ma di tonalità leggermente differente.
- … signori, potete avanzare... prego. Ecco a lei il visore, i guanti … Grazie per la vostra pazienza. Ecco il pass…
Le due ragazze dopo aver ricevuto le informazioni sulla mostra, erano dubbiose sul senso dell’operazione, ma ci scherzavano su.
- Secondo te è proprio così?
- Il mio professore di storia dell’arte diceva che viviamo in un sistema dove la cultura visiva è sempre più amministrata da un mondo dell'arte dominato da figure promozionali. Può essere pure che Presenza sia curato da Barbara d’Urso, no?
- Magari, finiamo in tv.
Risata.
- …diceva, anche, che gli organizzatori sono sempre più aziende di comunicazione e intrattenimento che non hanno alcun interesse per qualsivoglia analisi critica.
- Una curatela non si nega a nessuno.
- Cosa vuoi, lo sanno tutti che l’arte è morta!
Risata.
- A proposito, hai visto quel video dove Lady Gaga appare bendata in un bosco sotto la pioggia, e poi nuda abbraccia un monolite? [2] Che figata, mi sa che passo alla performance!
- No! Non ce la puoi fare! La futura erede di Marina Abramović è Lady Gaga. Non c’è battaglia.
- Mi hai stroncato la carriera!
Ancora, risata.
- A proposito di stranezze, hai notato i due inglesi?
- Chi i gemelli diversi?
- Tutto ‘sto casino e stanno lì a leggere senza neppure scambiare una parola.
- Almeno passano il tempo, riaccendi la musica, se no non ci passa più!

Dopo qualche ora, gran parte della fila era stata smaltita.
I due insegnati erano entrati. Non avevano voluto utilizzare l’agevolazione per la categoria così da poter vivere l’esperienza in tutto il suo disagio. In realtà, Matteo non voleva allontanarsi troppo dalle ragazze. Uno dopo l’altro, anche la bibliotecaria e il tecnico del suono e le due artiste li avevano seguiti a ruota. Gli inglesi erano rimasti a metà fila, seduti a leggere. Nessuno aveva pensato di avvisarli.
“Due in meno, è sempre meglio di niente” era il pensiero comune.
- …signori, potete avanzare... prego…

All’interno, non era proprio come si erano immaginati. Dopo quella lunga fila i visitatori erano disorientati. Davanti a loro c’era un corridoio buio, molto lungo. Non sembrava ospitale. Siria era spaventata. Teneva la gonna con entrambe le mani, per fortuna aveva le zeppe, il pavimento sembra viscido e fangoso.
- E’ BUIO! - gridava
Gianni non aveva più tanta voglia di prenderla in giro.
- Metti il visore ad infrarossi.
- SIRIA! NON SI VEDE UNA MAZZA! - urlava Lorianna.
- Sì, hai sentito il tizio delle “idee autosufficienti”, metti il visore ad infrarossi.
- Vai avanti… ho un po’ paura! - E’ l’esperienza, no? – rispondeva l’amica.
- Laura, quella laggiù sembra una luce, la vedi? - indicava Gianni.
- Sì, è una luce, se ci avviciniamo diventa più luminosa. Accelera, sarà l’ingresso alle sale.
- Lorianna vai più veloce, seguiamo quei due.
- Maledette zeppe. ARRIVO!
 
Intanto la coppia di anziani aspettava il turno, sarebbero entrati a breve.
- L’uscita dove sarà? Adesso che abbiamo fatto tutto il giro, si capisce che c’è solo una porta.
- Avrai mica guardato sempre la porta, da quando siamo qui?
- Ortensia, ci vuole poco. Da dove escono quelli che entrano? Da qui non di certo. Io non ho visto uscire nessuno!
- Saranno usciti mentre eri impegnato a rompere le scatole a quelli accanto a te.
- Ma cosa capisci tu! Sempre con quel coso a mandare uozzap alla tua amica scema. Cosa le mandi foto della gente in fila, tanto sono tutte uguali!
- Lascia fare, lo so io.
La sua amica, quella che le aveva consigliato la mostra, lavorava per l’istituzione che aveva organizzato l’evento. Si occupava degli artisti in residenza, li accompagna in giro per la città, li aiutava a reperire i materiali per le opere ecc., una sorta di segretaria fuori sede. Avrebbe voluto tanto essere lì, ma era di turno in un altro ufficio. Ortensia le aveva promesso le foto della fila, così per ricordo. L’idea di creare una fila ad anello, le aveva detto, era stata una figata.
 
… signori, potete avanzare... prego. Vi ricordo che la visita ha una durata di… avete malattie respiratorie, raffreddori di stagione siete pregati di indossare l’apposita mascherina gialla. Grazie per la vostra pazienza …

Arrivato finalmente il loro turno, era entrata anche la coppia di anziani.
- NON VEDO UNA SEGA. ORTENSIA DOVE SEI?
- Sta bono! Sempre ad urlare. Sono qui.
- Come fai a espirare nell’apposito sacchetto. ORTENSIA?
- Zuccone, sei uno zuccone. Sta zitto e va avanti, va! Guarda quei due e fa come loro.
C’erano state un po’ di difficoltà di adattamento all’ambiente, Dario Paoletti oltre che da logorrea e pallosità congenita soffriva di varie allergie. Aveva dovuto indossare la mascherina apposita.
- Co quetta macchera do riecco a pallare.
- Hai sentito il custode, se avete malattie respiratorie indossate la mascherina gialla. Sei sempre raffreddato, adattati. - La cosa lo divertiva. Per fortuna c’era un dio e si chiama la Cosa. Per una quindicina di minuti “L’antico Paoletti” se ne sarebbe stato zitto.
- Ortensia, attenta a dove metti i piedi, qui sotto è pieno di buchi, ed è un po’ molliccio.
- Laggiù si vede una luce, seguiamola. Dove sono finiti quelli davanti a noi? Non si sentono più.
- Saranno arrivati alle sale della mostra. Ma non potevano fare un corridoio come tutti gli altri?
- Sta zitto, non capisci che fa parte dell’esperienza?
- Mi frega una sega dell’esperienza, senti che puzza, sembra una fogna. Saremo nelle fogne? Con questi intellettuali della fava non si sa mai!
- Quella laggiù sebba uda via d’uscita. Accelera, sicuramente è l’iggresso alla motra.
- Accelera? E’ una parola con ‘ste buche!

Il ricambio della fila era avvenuto completamente. Erano entrati tutti, fatta eccezione i due inglesi. Non mancava molto alla chiusura eppure erano arrivati nuovi visitatori.
- Pensi che faremo in tempo ad entrare? L’ultimo ingresso è fra mezz’ora.
- Vai avanti, supera quei due, tanto leggono… E’ l’ultima opportunità di entrare e questi leggono, che furbi!
- Dai forse facciamo in tempo, non sono molti quelli davanti a noi!
I due ragazzi continuavano a leggere senza un minimo interesse a ciò che li circondava. Nessuno aveva pensato di avvertirli che la fila avanzava. “Due in meno era sempre meglio di niente”. Nessuno aveva percepito una certa compostezza di portamento, plasticità nella posa, la cura nell’abbigliamento per niente ricercato, così banale, giacca e calzoni della stessa tinta ma di tono leggermente diverso. Nessuno aveva notato la preferenza per oggetti ordinari, ma scelti con scrupolo. Tutti avevano considerato eccentrico il loro mutismo, ma nessuno aveva notato che non avevano mai cambiato pagina. “In fondo due in meno era sempre meglio di niente”. Forse qualcuno aveva notato il loro distacco, ma si era guardato bene da dargli un senso. Per tutti l’importante era stato avanzare, procedere, andare avanti, conquistare qualche metro, arrivare qualche minuto prima all’ingresso. Tutti si erano disinteressati alla loro Presenza.
 
- PORTAAAAAAA!
Alieni. Un gruppetto di strani esseri in giubbino catarifrangente giallo, soprascarpe di cellophane azzurrine, come quelle dell’aeroporto, guantini bianchi di cotone, occhiali ad infrarossi, mascherina verde o gialla. Qualcuno era sporco di fango.
Aleardo aveva spalancato la porta.
 
La luce fuori era abbagliante. Assuefatti al buio, avevano fatto fatica a vedere con chiarezza. Trafelati, sudati e puzzolenti aspettano che la vista tornasse normale. Aleardo era il primo. Si era tolto la maschera agli infrarossi. Lentamente, attento a non bruciarsi la retina, aveva aperto gli occhi. Guardava come una animaletto appena uscita dalla tana. Ricordava il signor Enrico, la talpa di Silver. La bocca era spalancata in uno stupore misto ad angoscia. Gli occhi si erano riempiti di lacrime. Non riusciva a dire una parola.
Di fronte a lui campeggiava una piazzetta del centro storico, la gente andava e veniva, qualcuno mangiava un gelato sugli scalini della chiesa, altri si facevano un selfie accanto alla statua del capitano di ventura, qualcuno comprava un souvenir da un ambulante, qualcuno altro consultava la cartina, altri semplicemente camminavano verso il successivo monumento, segnalato dalla guida del Touring.
 
Da quel buco, nel corso della giornata erano uscite centinaia di strane figure eccentricamente abbigliate, tutte un po’ disorientate, un po’ aliene. Nessuno li aveva guardati veramente. Chi per un motivo, chi per un altro, erano tutti affaccendati nei loro commerci materiali e spirituali, e poi, forse, quegli strani individui erano soltanto operai della compagnia del gas, attivati per un pronto intervento.
 

 




[1] Espressione che definisce gli spazi sottratti al dominio moderno e alla pianificazione della città come “spaces of insurgent citizen ship” essi includono il territorio dei senza casa, le reti dei migranti, i quartieri dell’appartenenza omosessuale, le periferie auto-costruite, i campi suburbani degli stranieri.
[2] Il riferimento è a The Abramovic Method, 2012, a cui Lady Gaga ha partecipato postando un video sulla Performance