martedì 21 marzo 2023

La ragazza elettrificata




Atsuko Tanaka[1] (1932-2005), membro di Gutai e straordinaria matriarca di tutte le performer è l’ideatrice del “Vestito elettrico”, opera di ispirazione futurista e dada, opera-azione di un corpo elettrificato. Si narra che l’artista abbia immaginato quest’opera ispirata dalle luci di un’insegna pubblicitaria. <<Me ne stavo seduta – racconta l’artista – su una panchina della stazione di Osaka, quando ho visto l’insegna di una pubblicità di prodotti farmaceutici, scintillanti di luci al neon. Trovato! Voglio fare un vestiti con i neon!>> [2] Quest’opera e il suo intero lavoro rappresentano ancora oggi un riferimento importante per le artiste. Lei è stata la prima fra le tante artiste del Sol Levante ad aprire l’arte alla performance, al corpo come materia artistica. Tanaka introduce corpo e movimento nell’arte plastica, associa una specie di seconda pelle fatta di un grappolo di accensioni elettrificate, prefigura quanto la tecnologia si sarebbe compenetrata alla sfera organica al punto da creare una sovrapposizione inesorabile tra le nostre funzioni biologiche e gli apparati di provenienza industriale. Oggi quasi nessuno esce di casa senza avere in tasca uno smartphone o resta totalmente disconnesso volontariamente, le carte guida delle città sono oggetti affettivi, chiunque preferisce un navigatore satellitare. L’opera per la quale è più conosciuta “Il vestito elettrico” raccoglie le suggestioni di una tecnologia che proprio in Giappone sarebbe esplosa nel culto di un progresso febbrile, per abbinarlo a movenze corporali, alla dimensione fisiologica, assimilato proprio nel bagaglio genetico di un’umanità bionica, un Koden. Koden è un termine piuttosto recente, è la forma contratta di Ko = individuo e denshi = elettronica e, testimonia la fusione di elementi organici e inorganici attraverso l’uso di protesi tecnologiche, suona più o meno come individuo elettrificato. Il lavoro di Tanaka è straordinariamente collegato, nell’idea di utilizzare la luce elettrica e i suoni, alle intuizioni futuriste di Luigi Russolo e Umberto Boccioni, sebbene l’interesse per la fusione natura e artificio hanno già un fondamento nella società giapponese, così come il concretizzarsi dell’impalpabile, l’interesse per oggetti insignificanti è dada, seppure è presente nel Satori [3].

Atsuko Tanaka entra a far parte del gruppo Gutai nel 1955, ne uscirà dieci anni dopo, in questo arco di tempo solleciterà l’interesse per la tecnologia, per il rapporto tra organico e inorganico ponendo le basi per quell’attrazione che oggi definiamo il sex-appeal dell’inorganico [4]. Viene introdotta nel gruppo da Akira Kanayama che nel 1952, prima di far parte di Gutai, assieme a Shiraga Kazuo e Saburo Murakami aveva fondato Zero-Kai, un gruppo artistico sperimentale. L’incontro con Jiro Yoshihara artista informale, più anziano di tutti loro, teorico del gruppo, determinerà l’ingresso dei componenti di Zero-Kai in Gutai e per certi versi ne condizionerà alcuni aspetti specificatamente pittorici.
Tanaka espone per la prima volta con Gutai alla Ohara Kaikan, in quella che è ufficialmente la I Esposizione Gutai di Tokio nel 1955, con due lavori. Nel primo l’ascendenza duchampiana è esplicita: dei semplici ritagli di tessuto rettangolare, a prima vista simili a tele vuote in attesa di essere dipinte. I teli, tuttavia, non sono pensati per ospitare segni pittorici. Così come a suo tempo Duchamp aveva lasciato filtrare l’aria da una griglia metallica che si muoveva in base alle leggi del caso, allo stesso modo Tanaka fa danzare i panni alla brezza fra i corridoi del museo. L’enfasi non cade sui riquadri di tessuto, puramente strumentali, bensì sul tremolio provocato dall’aria, elemento concreto benché impalpabile e non visibile a occhio nudo. Ancora nel 1955 presenta un’opera costituita di 10m² di seta rosa luccicante posizionata a 30cm da terra lasciata fluttuare al vento. In omaggio all’artista scomparsa poco prima, nel 2007 l’opera è stata riprodotta per Documenta 12, a Kassel. Se con i teli la corrente d’aria diventa materia da esposizione, un altro tipo di corrente, quella elettrica, alimenta i campanelli di Work (Bell) che l’artista modula su sonorità variabili in un grido artificiale, in successione tra le stanze del museo. Nel 1956, nella seconda esperienza all’aperto di Gutai “en plein air” di Ashiya, Tanaka all’apparenza sembra aver confezionato delle sculture iconiche piuttosto elementari, sette sagome umanoidi di tela con le quali centra un obiettivo cardinale delle neoavanguardie ovvero considerare tra gli stimoli sensoriali con l’uso diretto del corpo, dei muscoli della pelle, anche manifestazioni extraorganiche, specialmente quando queste si presentano sotto forma di luci artificiali. Ecco, appunto, sette vestiti enormi disposti in parata a costituire uno sbarramento, quasi si trattasse di spiriti, di guardiani della notte. E’ proprio al buio che quei fantasmi di lenzuola escono allo scoperto in un bagliore di luci elettriche, di tubi luminosi. Altri componenti del gruppo, come accade per Saburo Muratami con “Aria” 1956, un cubo in vetro (a cui Yoko Ono renderà omaggio nell’opera Water Piece), Akira Kanayama “Pallone gigante” 1957 rigonfio d’aria, in espansione costante, all’interno pulsazioni luminose, insistono orientandosi verso soluzioni extra-artistiche. Il ponte con ciò che Piero Manzoni sperimenta in questi anni con Corpi d’aria, Linee, Sculture viventi e scatole è chiaro, ne ritroveremo semi anche in Yoko Ono, Takako Saito e Mieko Shiomi. La direzione di Tanaka è ancora, però, quella del corpo e della tecnologia. E’ presente nel 1956 a Ohara Kaikan di Tokio alla II Esposizione con lavori la cui matrice aprirà interessanti legami con buona parte dell’arte giapponese a venire. Prosegue nella sua direzione Koden (individuo + elettrificazione) con l’utilizzo della luce elettrica e assembla un oggetto che è insieme scultura e tuta da performance, “Il vestito elettrico”. L’opera è un groviglio di cavi, tubi e bulbi luminosi, coloratissimi, da indossare come costume di una supereroina manga, di una regina fotonica, di una donna bionica, un innesto di biologia e artificio. Il corpo e l’abito tornano ancora in una manifestazione on stage all’Asahi Kaikan di Osaka del 1957 con “Vestiti di scena”. Sul palco l’artista appare visibilmente ingrossata rispetto alla sua abituale corporatura, abbigliata a più strati di tessuto che toglie scoprendo altri vestiti, tutti di colori diversi, fino a rimanere con una tuta aderente. Altre azioni di Tanaka realizzate quell’anno sono riportate da Jiro Yoshihara in alcuni scritti, dai quali, seppure brevi e telegrafici si evince la totale sintonia con il mondo dell’elettronica e il corpo elettrificato: <<Dalla tenda aperta sul retro appare una forma a croce, sui lati attori che con indosso vestiti luminosi, e tra loro anche l’autrice, a far spegnere e accendere piccole lampadine>>[5] Nell’edizione del 1958 sposta esclusivamente sulla luce e l’immaterialità l’azione realizzando enormi dischi da cui escono fasci luminosi, in un happening totalmente immateriale. In sintonia totale con il mondo dell’elettronica sono anche i disegni, strutture astratto–geometriche non molto distanti dalla bidimensionalità neoplastica di un Mondrian, Klee e Kandinskij già instradate su linee superflat che rientrano perfettamente in veri e propri schemi elettrici, schede madri, chip e linee di raccordo tra bobine, connessioni, cavi, percorsi lamellari. La sua ricerca dopo il 1965, anno in cui lascia Gutai prosegue da solista. Muore nel 2005. Negli anni recenti molti omaggi, recuperi hanno messo in luce l’importanza di questa artista nel panorama contemporaneo.

Taccuino

Gutai. Osaka 1954, sotto la direzione artistica e concettuale di un grande vecchio dell’arte nipponica Jiro Yoshihara (1905-1972) esponente dell’arte informale, si raccoglie un drappello di ragazzi che fin dalla prima esposizione mettono in chiaro quali sono le linee guida del gruppo: una radicale ricerca del nuovo, un’apertura incondizionata su vari aspetti del fare che contempla tanto la pittura quanto l’azione performativa. Il nome è Gutai, il primo gruppo artistico a praticare sistematicamente l’happening, precedendo e influenzando gli artisti americani. La prima mostra è del 1954 a Osaka, come tutte quelle a seguire sarà accompagnata da un bollettino “Gutai”. In tutto ne usciranno 15. Pittura informale e extra pittorico nella lunga storia del gruppo resteranno tra di loro spesso conflittuali, seppure considerati collegati da un’unica volontà artistica e un processo esecutivo grazie al quale spesso il dipinto non è che traccia, resto della performance compiuta. Alcuni membri del gruppo, più di altri, orienteranno la loro ricerca in direzione dell’extrartistico verso un rilancio Dada e Futurista: suono, elettricità, tecnologia, performance. Centro di tutti i lavori è il ripudio della figura. Il nome Gutai significa volontà di concretizzare la spiritualità della materia, materializzazione. Sin dalla sua origine, nel Manifesto dell’arte Gutai le parole di Jiro Yoshihara mettono immediatamente in evidenza la doppia anima di Gutai. Emerge, da una parte, la magnificazione della materia <<L’arte Gutai dà vita alla materia. La materia rimane tale e, quando viene sollecitata, rivela le sue proprietà, comincia a raccontare la sua storia, a gridarla anche>>, chiaro il richiamo all’Espressionismo astratto, al rifiuto di aderire a riproduzioni figurative, dall’altra il gruppo apre la porta a ben altre prospettive come la performance <<Siamo aperti a ogni sorta di esperienza, arti corporali, arti tattili, anche musicali>>[6]. L’evento decisivo che dà coesione alla squadra si svolge ad Ashiya, nel 1955, Ashiya Park, fuori dalle quattro mura di una galleria, per la prima volta all’aperto, nello spazio reale tra performance e azioni pittoriche. Un’accelerata, un salto che nessun artista fino ad allora aveva osato intraprendere. Nei 18 anni di attività, Gutai oscilla con risultati altalenanti, tra vecchie soluzioni e salti prodigiosi, per concludere il suo percorso nel 1972, data di scioglimento ufficiale del gruppo e morte di Jiro Yoshihara.

ARC

I principali riferimenti per questo testo sono i seguenti libri:

Fabriano Fabbri, Lo zen e il Manga. Arte contemporanea giapponese, Bruno Mondadori, Milano, 2009

Umberto Eco, Opera Aperta, “Lo zen e l’occidente”, Bompiani, Milano 1967
Mario Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino, 1994


[1] Fabriano Fabbri, Lo zen e il Manga. Arte contemporanea giapponese, Bruno Mondadori, Milano, 2009

[2] Atsuko Tanaka, Electrifying Art 1954-68, cat. a. c. di M. Kato, M. Tiampo, The Morris and Helen Belkin Art Gallery and Grey Art Gallery, Vancouver – New York 2004, op. cit., p.72

[3] “Lo zen e l’occidente” in Opera Aperta, Umberto Eco, Bompiani, Milano 1967

[4] Mario Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino, 1994

[5] Tratto dal bollettino “Gutai”, n°7, 1957, in Giappone all’avanguardia, cit., p.160.

[6] Giappone all’avanguardia. Il gruppo Gutai negli anni Cinquanta, cat. a.c.di S. Osaki, A. Monferini, M.Cossu Electa, Milano 1990, op. cit., p.156

1 commento:

  1. Il tuo articolo è interessante e formativo come sempre, complimenti alle artiste e grazie a te

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