martedì 9 maggio 2023

Il film mai fatto



Taccuino
Valige
Una generale riscoperta di alcuni aspetti della Commedia dell’Arte, riscontrabile negli anni Venti del Novecento, ha condotto a reinterpretazioni in chiave moderna di alcuni personaggi come Pulcinella, diffuso a metà Ottocento in vari paesi con varianti e nomi locali: in Francia diventa Polichinelle, in Spagna Don Cristòbal Pulichinela, in Inghilterra Mr. Punch, in Germania e Austria Kasperl, in Russia Petruška, introdotto con il suo teatrino ambulante nelle fiere di carnevale. In questo contesto tra folklore, cubismo, futurismo e costruttivismo i personaggi della Commedia dell’Arte divengono soggetti per il teatro di figura, marionette, personaggi dei balletti, progetti di film di animazione. La fortuna di Pulcinella si manifesta principalmente attraverso il recupero del folklore popolare nella Parigi degli espatriati e delle avanguardie. Negli stessi anni in cui, a Parigi, Sergei Djagilev con Aleksandre Benois, Igor Stravinsky e il coreografo Michail Fokin fa di Petruška uno degli spettacoli più straordinari dei Ballets Russes, incontro dissonante e dissacrante fra folklore e modernità, nella società russa si sviluppa un contrasto fra il vecchio e il nuovo che di lì a poco, proprio nella Parigi degli espatriati, darà vigore al teatro di figura, ai balletti e agli spettacoli di marionette. Tra il 1915-1916 a San Pietroburgo, con la mostra "0.10" nasce il Suprematismo di Malevič e contemporaneamente un Teatro di marionette per adulti concepito da Yulia Slonimskaia e da suo marito Pavel Sazonov. A Mosca in quello stesso anno Nina Simonovič-Efimova (1877-1948) metta in piedi il suo primo spettacolo di burattini, l'inizio di una lunga carriera professionale di marionettista e di teorica delle marionette. Olga Glebova (1885-1945) emigra nel 1924 portando con se tutto il suo mondo: un'intera valigia di ricami, statuine di ceramica, bambole e marionette che le sarebbero serviti per sopravvivere prima a Berlino e poi a Parigi. I temi delle sue marionette sono quelli canonici: il Pierrot, la Colombina, la danza popolare russa come lo erano i materiali: stoffa, filo, ovatta, cartapesta. Due strade apparentemente inconciliabili: il suprematismo e la moda delle marionette si innesta nella Parigi degli anni Venti viaggiando nelle valigie degli emigranti e producendo interessanti sviluppi. Nel dicembre del 1924 anche i Sazonov  emigrano e riaprono a Parigi il loro Teatro di marionette presso il Théâtre du Vieus Colombier. Natalija Gončarova, Michal Larionov, Nicolaj Milioti e altri artisti russi vi lavorano. Tra le artiste di questo gruppo di espatriati che realizzano costumi e marionette c’è Alexandra Exter.





Alexandra Exter (1882-1949) nasce a Belostok (Polonia) e frequenta come libera auditrice l’istituto d’arte di Kiev. Nel 1907 frequenta l’atelier del ritrattista Charles Delval Parigi. Tra il 1908 e il 1914 viaggia spesso, vive a Mosca, San Pietroburgo, Kiev e a Parigi ha l’occasione di avvicinarsi all’ambiente cubista, conosce Picasso, Braque, Apollinaire e Jacobs, in Italia conosce Soffici, Papini e Marinetti. Fra il 1915 e il 1917 è di nuovo in Russia e sotto l’influenza di Tatlin e Malevic si avvicina al costruttivismo. Nel 1916 realizza gli affreschi per il vestibolo, il foyer, il sipario e le quinte del boccascena per il Teatro da camera di Mosca di Aleksandr Tairov. Nello stesso anno Tairov gli commissiona scenografie e costumi per Tamira il citaredo 1916, nel 1917 Salomé e nel 1921 Giulietta e Romeo. Nel 1923 lavora anche nel campo della moda, per la rivista Atelier. Molto importante per gli sviluppi futuri di alcune marionette, è la collaborazione, nel 1924, con il regista Jakov Protazanov, per il quale progetta i costumi marziani per il film Aelita.


Taccuino
Robottoni
Le marionette che la Gončarova realizza per la performance Festa popolare su libretto di Larionov, sono in realtà bambole in movimento i cui costumi ricordano i suoi costumi teatrali per i Ballets Russes di Djagilev. Alexandra Exeter pare andare in tutt’altra direzione. Quando ho visto la foto di uno dei costumi marziani realizzato nel 1924, per il film Aelita di Jakov Protazanov, ho pensato a quanto la fusione tra costruttivismo, futurismo, scienza e fantascienza si stesse formando nella visione di artisti molto differenti e provenienti da realtà eterogenee. Il guardiano realizzato per Aelita ricorda i robot dalle fattezze umanoide dei manga giapponesi, anch’essi miscela tra letteratura e futurismo, anticipazione di una tecnologia che proprio in Giappone sarebbe esplosa nel culto di un progresso febbrile: il primo robot rappresentato in un manga è il gigante di fattezze umanoidi  Tanku Tankurō del 1934, segue nel 1956 Tetsujin 28, fino ai contemporanei Mazinga Z del 1972, Goldrake e tutti i suoi fratelli.

 



Nel 1924
Alexandra Exter si stabilisce definitivamente a Parigi e insegna alla Académie Moderne di Fernand Léger. Ufficialmente è in viaggio per partecipare a
l Padiglione Sovietico della XIV Biennale di Venezia e all'Exposition Internationale Arts Décoratifs, ma non rientrerà più in Russia. Da questo momento tra i suoi progetti domina il lavoro sulle marionette e gli studi sul movimento nello spazio applicato a quelli che fin ora sono stati manichini per abiti di scena e costumi teatrali.
Exter riversa sulle marionette tutto il suo incredibile bagaglio di esperienze artistiche passate a partire proprio dai costumi e le scenografie realizzate con il Teatro di Tairov, negli anni Dieci. Tairov utilizzava modelli tridimensionali per i costumi teatrali e gli artisti suoi collaboratori preparavano per gli spettacoli accuratissime maquette: scenografie in miniatura dove addirittura i modellini di attori o danzatori erano colti nei loro movimenti e gesti come in un teatrino di marionette. Negli archivi di Exter a Parigi si trova la scenografia per Salomé del 1917, in questa maquette è piuttosto evidente quanto i personaggi così realizzati siano già delle marionette, ma questo non basta perché possano esprimere in modo autonomo il movimento. La vera novità a cui aspira, rispetto ai modelli tridimensionali di costumi, è il movimento di oggetti plastici tridimensionali che incominciano a muoversi quasi spontaneamente. C’è nell’ossessione di Alexandra una sorta di desiderio di film animato, di qualcosa che superi il limite del teatro di marionette. Exter, già nel 1921, ha cercato di mettere in pratica l’idea del movimento  per una scenografia teatrale realizzata con sculture non oggettive rotanti. Ma è la collaborazione, nel 1924, con Protazanov, per i costumi marziani, a rappresentare un ulteriore passo in avanti. Il modellino del costume per Aelita, oggi a Canberra presso la National Gallery of Australia, sebbene dimezzato nelle proporzioni rispetto alle marionette che progetterà nel 1926, ci fa capire come per Exter il lavoro con le marionette fosse profondamente legato alle sue ricerche plastiche sul movimento.




Finalmente, nel 1926, arriva l’occasione per un film d’animazione, il progetto è del regista danese Urban Peter Gad. Per questo progetto Exter disegna quaranta marionette, non è chiaro quante ne siano state effettivamente realizzate, forse sedici, sappiamo che sono suddivise in due modelli: marionette della Commedia dell'arte e marionette moderne. Nechama Szmuszkowicz, allieva della Exter, scultrice burattinaia, traduce mirabilmente i disegni in figure tridimensionali mobili: utilizza soprattutto materiali di uso quotidiano, rende mobili le articolazioni utilizzando sfere e connessioni tessili così da ottenere marionette come sculture in movimento. Il film purtroppo non verrà mai realizzato. Rimangono i progetti e le marionette.
L’azione si sarebbe dovuta svolgere alternativamente in una Venezia immaginaria del XVII secolo e nella futuristica New York degli anni Venti e rappresentare il confronto fra due mondi: quello della nostalgia delle maschere veneziane e quello cubo-futurista di New York, dove il vento trasportava Pulcinella e Colombina dopo un breve litigio. Qui Pulcinella cercava di rubare dei gioielli per Colombina, ma veniva arrestato da un poliziotto americano. E alla fine, in un gran carnevale, le marionette moderne nelle sembianze di uomini meccanici si mescolavano alle maschere tradizionali. Osservando Arlecchino nero con la sua strana gamba a campiture geometriche o Pulcinella dal volto livido azzurrino e il torso cilindrico, decorato in rosso e bianco, notiamo che sono figure a cavallo tra due concezioni estetiche: tra la nostalgia del simbolismo e il nuovo mondo robotico suprematista. Questa visione ibrida tra simbolismo e suprematismo è molto ben espressa negli Arlecchini dedicati ai diversi colori (Arlecchino nero, Arlecchino grigio e Arlecchino bianco) che rispecchiano i diversi sentimenti della città lagunare. Queste figure sono denominate i "Longhi" per via dalle maschere facciali nere, come quelle che troviamo nelle scene carnevalesche del pittore veneziano Pietro Longhi, delle quali sono un’interpretazione assai personale. Se nelle marionette ispirate alla commedia dell’arte, abitanti della fantastica Venezia del XVII secolo Exter conserva un’atmosfera brumosa, in quelle della New York degli anni Venti prevale il macchinismo futurista: c’è l'uomo-sandwich, l’uomo-réclame, il Robot. L’utilizzo di materiali industriali di scarto, i frammenti della realtà, l’uso di manifesti pubblicitari è evidente nella struttura dell’uomo-sandwich che ha una gamba realizzata con un frammento di scatola di latte condensato e incorpora in varie parti anatomiche i frammenti dell'annuncio della mostra della stessa Exter presso lo Steinway Building di New York di quell'anno (27 febbraio- 15 marzo). Un inno alla modernità metropolitana, la lezione del suprematismo prima, del cubismo e del futurismo è perfettamente assorbita nella plastica di queste marionette, realizzate con gli scarti della società moderna, della pubblicità e dei residui di materiale industriale di provenienza eterogenea e misteriosa.

Taccuino
Meccanica
Il motivo delle macchine artificiali dotate di sembianze antropomorfe e di intelligenza è presente nel teatro e nel cinema sin da quando viene messo in scena un dramma distopico fantascientifico in tre atti dal titolo I Robot Universali di Rossum, tratto dal romanzo dello stesso autore, lo scrittore ceco Karel Čapek. Pubblicato nel 1920, il dramma è messo in scena al teatro nazionale di Praga nel 1921, nel 1938 viene realizzata una riduzione cinematografica dal titolo R.U.R. che a sua volta influenzerà altri film di fantascienza. Čapek ha sicuramente influenzato Friz Lang per il suo capolavoro Metropolis del 1927.
Quando nel 1929 Metropolis viene distribuito in Giappone l’impatto sulla narrativa fantascientifica e sulla scienza stessa è straordinario. Ispirerà inspiegabilmente i lavori di alcuni scienziati che di lì a poco progetteranno i primi robot: nel 1928, il biologo Makoto Nishimura progetta una sorta di enorme Buddha di metallo dorato di nome Gakutensoku, qualche anno dopo, nel 1932, Yasutaro Mitsui realizza un altro robot dall’aspetto più meccanico. Fantasia, arte, scienza e fantascienza si mischiano, ciò che appare è sempre un’attrazione fortissima per l’automa: dalla bambola meccanica alla marionetta fino al robot vero e proprio.

ARC


I principali riferimenti per questo testo sono i seguenti libri:

Lea Vergine, L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940: pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche, Il Saggiatore, 2005

AA. VV. Automi, marionette e ballerine nel teatro di avanguardia: Depero, Taeuber-Arp, Exter, Schlemmer, Morach, Schmidt, Nikolais, Cunningham, Skira editore Milano, 2000

Jacopo Nacci, Guida ai super robot. L’animazione robotica giapponese dal 1972 al 1980, edito da Odoya

Siti:

domenica 30 aprile 2023

Il corpo artificiale

 


Sophie Taeuber-Arp (1889-1943) è una artista, designer e danzatrice, ma è raro che ci si riferisca a lei come ballerina. Di Sophie si conoscono soprattutto dipinti, collage, ricami e marionette. Come ballerina è pressoché sconosciuta, sebbene c’è stato un periodo della sua vita nel quale ha pensato seriamente di abbandonare le arti figurative per dedicarsi completamente alla danza. Non è durato molto, ma è stato un periodo molto significativo per la sua formazione. Il suo percorso di studi inizia in Svizzera dove è nata. Dal 1910 frequenta prima la scuola di disegno per l’industria e le arti applicate a San Gallo, in seguito l’atelier sperimentale per l’arte applicata fondato nel 1902 da Hermann Obrist e Wilhelm von Debschitz a Monaco, infine si iscrive per due semestri alla scuola di arti applicate di Amburgo, per tornare nel 1913 nell’atelier di Debschitz, a Monaco.

Nel 1914, a Zurigo, ha la folgorazione per la danza astratta. In verità la praticherà per pochi anni, tuttavia inciderà profondamente e in maniera duratura sulle sue creazioni artistiche. Grazie all’amicizia che la lega a Mary Wigmann, tra le più note allieve di Rudolf von Laban, coreografo, teorico “della danza libera” ovvero libera dalle costrizioni del balletto classico e dai legami con la musica, Sophie entra a far parte della compagnia per collaborarvi attivamente.
Laban aveva fondato una propria scuola nel 1913, questa si teneva in inverno a Monaco di Baviera, in estate a Monte Verità sopra Ascona. Allo scoppio della Grande Guerra la ricerca artistica della compagnia di Laban si intreccia con l’opera degli artisti dadaisti. In questa circostanza Sophie conosce Hans “Jean” Arp. Le prime esibizioni in danze primitiveggianti nei cabaret Dada iniziano presto e rappresentano un tramite per inventarsi un corpo e gesti differenti, indossa maschere, che non solo trasformano il volto, ma modificano la percezione di chi danza e di chi guarda. Il corpo perde di umanizzazione, il che conduce ad un’astrazione e a una reinvenzione di sé e della propria presenza scenica. Nell’intollerante Zurigo, durante le serate dadaiste si nasconde dietro lo pseudonimo di G. Thauber, l’uso della maschera avvantaggia l’anonimato. Negli anni successivi assieme ad Arp, Marcel Janco e Fritz Baumann fonda il gruppo “Dan Neu Leben” (la nuova vita) con l’obiettivo di integrare l’arte astratta nella vita quotidiana. Il gruppo continua ad organizzare serate dadaiste e feste in maschera, tuttavia ci è nota solo un’altra performance coreografata da Sophie Taeuber, quella dell’8° serata dada alla Saal zur Kaufleuten (sala dei commercianti) del 9 aprile 1919, Noir Kakadu. Le scenografie sono realizzate su strisce di carta di due metri da Sophie e Jean Arp.
Nel 1921 lei e Arp fanno un viaggio in Italia e in seguito si sposano. Nel 1926 si trasferiscono a Strasburgo, qui insieme a Teo Van Doesburg, lavorano alla ristrutturazione degli interni del Cafè de l’Aubette, un grande centro di divertimenti sulla Place Kléber a Strasburgo, restaurato nel 2006. Il soffitto è progettato da Sophie con i medesime strutture a griglia dei suoi lavori su tessuto o su carta. Nei tardi anni venti vivono a Parigi. Nel 1937 fonda la rivista Plastique, pubblicata per soli due anni. Nel 1940 lascia Parigi, occupata dai nazisti. Si rifugiano dapprima a Nérac, da Gabrielle Picabia, poi in Savoia da Peggy Guggenheim e infine a Grasse, nel sud della Francia. Nel 1942 si traferisce di nuovo a Zurigo. A questo periodo risalgono le opere che combinano forme organiche e forme artificiali. Con l’aiuto di Peggy Guggenheim e il Museum of Modern Art di New York progettano di traferirsi negli Stati Uniti. Nel gennaio del 1943, un tragico incidente, dovuto alle esalazioni di monossido di carbonio di una stufa malfunzionante, ne causa la morte.

Taccuino

Bambole e Automi
Anche chi non ha una grande conoscenza di danza ha sicuramente sentito nominare il balletto Coppélia 1870, ispirato al primo racconto dei Notturni 1816 di E.T.A. Hoffmann, L’uomo della sabbia, racconto che indaga l’immaginario romantico dell’automa. La protagonista si trasforma in bambola caricata a molla, si esibisce perciò in movimenti meccanici. Questo aspetto della costruzione di un altro corpo diverso da quello naturale è uno degli interrogativi su cui si sono misurati molti artisti. La disumanizzazione, la meccanicità, la reinvenzione della fisicità attraverso maschere, costumi che trasformano gli esseri viventi in marionette animate dall’interno con movimenti meccanico/robotici si trova al centro delle attività speculativa e operativa di tutti i movimenti dell’avanguardia teatrale dai primi anni del XX secolo.
Spesso in competizione tra loro realizzano teatrini e marionette danzanti, maschere e fantocci perché attraverso la danza si trovassero nuovi contenuti, nuove forze. La creatività e la competizione, a volte anche l’invidia, ci hanno lasciato risultati creativi straordinari. Un esempio fra tutti: i costumi, sicuramente ingombranti, di Fortunato Depero per Le Chant du Rossignol, 1916-17 tratto da una fiaba di Andersen, per i Ballets Russes di Sergei Djagilev saranno sostituiti nel 1925, da costumi più morbidi, meno ingombranti e sicuramente più “ballabili” realizzati da Henry Matisse con una nuova coreografia di Balanchine. Come per Coppélia anche in questo caso è presente l’elemento meccanico, il corpo robotico, lo scontro tra natura e artificio. Qui si fronteggiano un usignolo naturale e uno meccanico, l’automa, che l’autore sostiene essere più performante di quello in carne e piume.

 


E’ difficile immaginare epoche nelle quali non si fotografasse ogni momento della vita, ogni esperienza, anche la più banale. Eppure queste epoche sono esistite e dei talenti che le hanno attraversate a volte è rimasto qualche sfocato scatto fotografico. L'unica prova visiva dell'attività di Sophie Taeuber-Arp come danzatrice è rappresentata da una delle pochissime fotografie esistenti della prima performance Dada. Non sappiamo se sia stata scattata al Cabaret Voltaire nel 1916 o alla Galerie Dada nel 1917, in ogni caso, rappresenta una parte importante dell'attività Dada e dell'avvento, negli anni dieci, della danza astratta. Parallelamente al tentativo di Dada di rompere con il linguaggio consolidato e le forme d'arte di un sistema sociale imperfetto, Sophie include all’interno delle sue performance movimenti intuitivi e astratti: come nella poesia rumorosa, la danza evoca idiozie per contrastare l'ordine stabilito. E’ plausibile che il costume avesse parti colorate in blu, rosso, bianco e marrone, oltre che in argento e oro, colori che ritroviamo nelle marionette del Re Cervo e in disegni e bozzetti. Il costume non è realizzato perché accompagni movimenti fluidi, piuttosto impone gesti robotici, le forme geometriche che costituiscono la parte superiore costringono le spalle e i movimenti delle braccia sono rigidi, sgraziati, al contrario la parte inferiore del corpo ha una maggiore libertà e le gambe posso muoversi con grande dinamicità. Frenato e reso anonimo dal costume, il corpo di Sophie appare fratturato e zoppicante, come il mondo spezzato che la circonda.




C’è un’altra fotografia importante per questo racconto. E’ del 1918 e ritrae Sophie e Jean a mezzo busto: lui guarda in camera, lei ha lo sguardo distratto, alle loro spalle appese alla parete le marionette del Re cervo, realizzate da Sophie per il suo più originale contributo al movimento dadaista. Dopo l’esperienza con la danza, nel 1918 riprende a dedicarsi sempre di più alle arti figurative. Lea Vergine nel libro dedicato alle artiste dell’avanguardia le definisce in questi termini: “Queste possono considerarsi le prime marionette moderne, fatti con parti meccaniche che, appoggiate su semplici elementi di base, lasciano vedere il meccanismo del movimento, collegando così la maniera dadaisti a quella astratto-concreta.”[1] 

Il Re cervo è tratto da una famosa fiaba teatrale tragicomica di Carlo Gozzi, del 1762. La versione assolutamente inconsueta, aggiornata in chiave dadaista, rappresenta il rapporto professionale e la successiva separazione tra Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, due figure fondamentali del pensiero e della psicanalisi del XX secolo. Una satira nella quale appaiono pappagalli, cervi, robot, personaggi che riferiscono direttamente ai due protagonisti. Viene rappresentato per la prima volta l’11 settembre 1918 al Teatro delle marionette di Zurigo di Alfred Altherr, architetto e direttore della Scuola di Arti Applicate di Zurigo.

 



Taccuino
Marionette
Nei primi decenni del XX secolo la collaborazione tra arti visive, teatro e danza rappresenta un momento fertile ricco di idee e intuizioni. Tra gli artisti futuristi, dadaisti, costruttivisti molti collaborano con coreografi, compagnie teatrali, alcuni creano coreografie, progettano costumi e oggetti di scena, utilizzano la danza per dare corpo a polemiche e scandali, accentuando la propria presenza attraverso la presenza del corpo naturale o artificiale, da cui deriva una predilezione per mascherature corporali e costumi-marionetta.
La marionetta è stata considerata dalle avanguardie europee come la forma più adatta a esprime il nuovo linguaggio artistico scaturito dalla crisi della rappresentazione teatrale e delle arti visive, segno di quella più generale crisi a cui gli stessi movimenti di avanguardia cercarono di rispondere all’inizio del XX secolo. Risorge nei temi, nei concetti, nei simboli di questi anni anche tutta la tradizione della commedia dell’arte italiana, che rimanipolata, adattata diviene occasione di critica sociale, culturale, politica. Nel corpo naturale dei ballerini o nel corpo robotico, nei fantocci o nelle marionette molte artiste cercano nuovi spazi di espressione.

ARC

I principali riferimenti per questo testo sono i seguenti libri:

Lea Vergine, L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940: pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche, Il Saggiatore, 2005

AA. VV. Automi, marionette e ballerine nel teatro di avanguardia: Depero, Taeuber-Arp, Exter, Schlemmer, Morach, Schmidt, Nikolais, Cunningham, Skira editore Milano, 2000

sito:


[1] Cit., Lea Vergine, L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940: pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche, Il Saggiatore, 2005, p 240.

martedì 4 aprile 2023

Talismani

 



Patricia Lee Smith, conosciuta come Patti, è nata a Chicago nel 1946. Non a tutti è noto che ha intrapreso il suo viaggio nell’arte non iniziando dalla musica, per cui è famosa, ma attraverso la poesia e l’arte visiva. Ha sviluppato una coscienza estetica piuttosto giovane. “(…) Un giorno ho trovato una pila di riviste Harper's Bazaar e Vogue legate con uno spago in un mucchio di rifiuti. Era il 1954 circa. (…) Sono stata particolarmente attratta dalle fotografie di Irving Penn e ho adorato le foto di sua moglie, la modella Lisa Fonssagrives. Mentre frequentavo la scuola elementare, passavo molto tempo nella biblioteca locale. Cercando cose relative a Lewis Carroll, ho trovato un vecchio libro illustrato con i suoi ritratti di bambini. (…) Guardando le fotografie di Carroll, mi sono chiesta: "Perché non possono fotografarci in quel modo?" Tramite Carroll ho scoperto anche Julia Margaret Cameron e sono rimasta molto colpita dalla fotografia vittoriana.”[1].

Nel 1967 si è trasferita a New York. Ha lavorato in varie librerie, frequentato artisti e poeti. Sono gli anni di formazione e sperimentazione, gli anni dell'incontro con Robert Mapplethorpe.
Andy Brown, della libreria Gotham Book Mart, vendeva le sue illustrazioni su carta, generosamente disposte vicino al registratore di cassa. A Andy piacevano i suoi disegni e nel 1973 le organizza la prima mostra.  In seguito Robert Miller, dell'omonima galleria di New York, dopo aver visto la mostra al Gotham Book Mart, le offre una mostra. Passarono alcuni anni prima che la cosa si concretizzasse, ma Miller rimase in contatto costante con lei, anche quando nel 1977 ebbe un grave incidente. Fece la mostra, ma subito dopo diede una svolta inaspettata alla sua vita. "Nel 1977 ho avuto un grave incidente e quando mi stavo riprendendo Robert Miller è venuto a trovarmi e mi ha portato dei libri sul lavoro di Lee Krasner e Joan Mitchell. Era un grande sostenitore delle donne artiste. Aveva un entusiasmo così straordinario. Alla fine mi convinse a mostrare i miei disegni. Gli ho chiesto se io e Robert Mapplethorpe potessimo esibirci insieme. Abbiamo fatto una bellissima mostra e da allora sono stata con la galleria. Mi sono trasferita a Detroit alla fine del 1979 e mi sono lasciata tutto alle spalle. Ho sposato Fred e ho avuto due figli e ho trascorso la maggior parte dei successivi sedici anni concentrandomi sulla mia famiglia, studiando storia dell'arte e scrivendo. Robert Miller non si è mai arreso con me e quando sono tornata a New York nel 1996 mi ha incoraggiato a produrre nuovi lavori." "Quando mio marito è morto alla fine del 1994, ero emotivamente esausta. Non potevo fare altro che prendermi cura dei miei figli. Non potevo lavorare, studiare o creare. Avevo la nostra vecchia macchina fotografica Polaroid, una Land 100, e mi è venuto in mente che avevo abbastanza energia per scattare una fotografia e che potevo vederla immediatamente. Così ho iniziato a scattare Polaroid di oggetti nella nostra camera da letto, dove la luce si diffondeva attraverso la zanzariera drappeggiata sulla nostra finestra. L'immediatezza del processo è stata gratificante. La prima buona foto che ho scattato è stata delle pantofole di Nureyev (Nureyev’s Slippers, Michigan, 1995) e ho provato un immediato senso di realizzazione.” [2] Da allora espone ancora con la Robert Miller Gallery.



La morte è uno dei soggetti preferiti di Patty Smith. Evoca spettri senza alcuna atmosfera inquietante, al contrario, nelle sue polaroid emerge tutto l’amore verso coloro che hanno contribuito a costruire la sua vita artistica e, ancora lo fanno. “Da bambina avevo un grande rispetto per l'oggetto inanimato. C'era così tanta perdita intorno alla mia famiglia. Entrambe le mie nonne sono morte giovani. Quindi un mandolino o un copriletto di pizzo che apparteneva a loro sembrava molto prezioso. I loro oggetti erano l'unico modo in cui potevo evocarli. Immagino che quel senso delle cose si estendesse ai poeti e agli scrittori che amavo. Potevo accedere a Rimbaud attraverso il suo atlante, la sua sciarpa, la sua forchetta e il suo cucchiaio. Ho perso mio marito, mio fratello, Robert, il mio giovane pianista e i miei genitori. Quindi ho un rapporto forte con i morti, anche felice. Traggo piacere dall'avere le loro cose e talvolta fotografarle. Sono così da quando ero giovane. È quello che sono.”[3] Tutti gli scatti paiono inseguire ancora oggi lo spirito pioneristico del dilettante vittoriano, quando agli albori della fotografia contava l’esplorazione, l’unicità, i ritratti dei poeti, la testimonianza, il viaggio, la reliquia dell'opera d'arte, le sfocature e gli effetti pittorici. E’ il pellegrinaggio il tema principale del lavoro. Il viaggio nei luoghi in cui hanno vissuto, scritto o dove sono sepolti gli artisti che l'hanno ispirata. Il continuo ritorno su questi luoghi è l’attività che ha iniziato a praticare dopo la morte del marito Fred “Sonic” Smith. Quello che svolge Patti è un pellegrinaggio sentimentale, alla ricerca dei luoghi, ma soprattutto di oggetti-talismano, appartenuti a donne e uomini che hanno lasciato una traccia nella bambina e ragazza che è stata e nella donna che è oggi. Ha fotografato il letto di Keats, la maschera della vita di Blake, gli utensili di Rimbaud, la bandana di William Burroughs. E' il suo modo di fare loro i ritratti. 




Per i ritratti-talismano Patti Smith utilizza generalmente una fotocamera Polaroid Land 250. Come molti fotografi considerati "non professionisti", negli anni non ha sentito il bisogno di migliorare la strumentazione, al contrario, la sua polaroid 250 è parte fondamentale del progetto, è anch'essa un oggetto talismano. Di solito esce con un pacchetto da dieci scatti, quindi deve riflettere attentamente su ogni immagine. Ha sviluppato un approccio economico dello scatto fotografico sin dai tempi che sperimentava arte e vita con Robert Mapplethorpe, quando entrambi avevano pochi soldi e la pellicola costava molto, ogni ripresa doveva essere buona. Ora, nonostante non ci siano più i problemi economici della giovinezza, c'è pochissima pellicola Polaroid in circolazione, quindi, non è possibile sprecarla. La polaroid le permette di ottenere immagini sempre uniche. Sceglie il bianco e nero, presenta quello che sa sui principi della luce e della composizione, immagini piatte per scelta. Non è interessata alla profondità fisica nelle foto. Le piace immaginarsi simile al dilettante del diciannovesimo secolo. Quell'impulso iniziale di bambina, il sogno di realizzare fotografie come Julia Margaret Cameron si è compiuto. Ogni immagine, ogni polaroid è un individuo, racconta una piccola storia. La genesi dell'impulso creativo non è sempre rintracciabile, è però immediato e indelebile. Questo è il bello di una Polaroid. Guardando ognuna di loro è possibile ricordare com'era il momento dell'inizio. Ogni fotografia è come una pagine di diario della sua vita. Le pantofole di Robert Mapplethorpe “Anche Robert era molto talismanico. Amava le sue pantofole di velluto nero con le sue iniziali ricamate con fili d'oro brunito. Ero molto invidiosa di loro e lui mi prendeva in giro, dicendo: <<So che vuoi le mie pantofole>>. E credo di averlo fatto. Quando è morto, mi sono disperata per le sue cose. Non cose di valore, solo piccole cose che parlavano di lui, di cui le sue pantofole erano emblema. La fotografa Lynn Davis, che era molto vicina a Robert, è stata così gentile da darmele. Le ho fotografate per lei in modo che anche lei potesse averne un po’.” La tazzina da caffè di suo padre Grant: “E' una tazzina da caffè in fine porcellana realizzata per il centenario di Charles Dickens che ho comprato per mio padre a casa di Dickens a Londra. Mio padre lo adorava e a nessuno era permesso berne. Nessuno ha toccato la tazza di mio padre. Quando mio padre è morto, mia madre me l'ha regalata, ma io non ho mai potuto usarla. È in una teca di vetro speciale, e anche se spesso la tiro fuori e la guardo, non ne berrei mai.” La tomba di Susan Sontag: “Ho scattato una foto della tomba di Susan Sontag per Annie Leibovitz il giorno dopo il funerale di Susan. Faceva molto freddo e la sua tomba era ricoperta di petali bianchi. Annie ha pianto profondamente la perdita di Susan, e quando guardo la foto penso a entrambe.”[4]




Nel modo in cui sceglie gli oggetti appartenuti a poeti, scrittori o familiari e amici, non c'è alcuna differenza, sono tutti oggetti talismano, cambia la relazione che Patti attiva tra la polaroid, piccola custode, e i ricordi. Guarda agli oggetti per il loro valore sentimentale, simbolico. Sono spesso banali, ma hanno avuto un contatto fisico prolungato con la persona che li ha posseduti: il letto di Virginia Woolf a Monk House è lo spirito di Woolf, come la polaroid del suo bastone da passeggio. Delle pantofole di Robert Mapplethorpe realizza due scatti: uno per sé e uno per Lynn Davis, "in modo che anche lei potesse averne un po’". Lo stesso vale per la sedia di Roberto Bolaño“Mi esibivo in Spagna e sono andata a Blanes, dove Roberto Bolaño visse e morì. Volevo fotografare qualcosa che parlasse di lui. Mi è stata data l'opportunità di fotografare la sua sedia. Una sedia insignificante ma era la sedia che amava, su cui sedeva per ore e ore scrivendo il suo capolavoro 2666.”[5] "Avevo scattato quattro foto della sedia, una sedia semplice, che per superstizione si portava dietro da una casa all'altra. Era la sedia su cui si sedeva per scrivere." [6]

Taccuino

Anche una fotografa professionista, amica di Patti Smith, come Annie Leibovitz ha utilizzato l’idea di pellegrinaggio associato ai propri artisti e scrittori preferiti. Centro del lavoro, realizzato tra l’aprile del 2009 e il maggio 2011, dal titolo Pilgrimage, è una raccolta di foto di oggetti appartenuti a varie celebrità che hanno influito in diversa misura sulla sua formazione.

ARC



I principali riferimenti per questo testo sono i seguenti libri:

Susan Lubowsky Talbot (a cura di) Patti Smith Camera Solo, Catalogo, Wadsworth Atheneum Museum Art, Hartford, Connecticut, Yale University Press, New Haven, 2012

Patti Smith, Just Kids, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2010

Patti Smith, M Train, Bompiani, Milano, 2016



[1] Le parole di Patti Smith sono tratte dell’intervista di Susan Lubowsky Talbot svoltasi in occasione della mostra al Wadsworth Atheneum Museum Art di Hartford, Connecticut 2012 in Patti Smith Camera Solo, a cura di Susan Lubowsky Talbot, Catalogo, Wadsworth Atheneum Museum Art, Hartford, Connecticut, Yale University Press, New Haven, 2012, p.9
[2] p.10
[3] p.11
[4] p.15
[5] p.15
[6] Patti Smith, M Train, Bompiani, Milano, 2016, p.36 

giovedì 30 marzo 2023

Claude allo specchio

 


Lucy Schwob scrittrice, filosofa drammaturga, che in tutta la sua vita non ha mai smesso di interrogarsi sulla propria identità e di agire su di essa, cambia nome. Detto così, non sembra un fatto eccezionale, lo aveva fatto già moltissime volte durante la sua attività di scrittrice e giornalista, aveva utilizzato pseudonimi ironici, rivoluzionari e scomodi come Claude Courlis, Alfred Douglas. Sembrerebbe un vezzo come un altro. Nata a Nantes come Lucy Schwob, il 25 ottobre 1894 da una famiglia di intellettuali, scrittori, giornalisti di origine ebraica, a partire dal 1917 si farà chiamare definitivamente Claude Cahun. E' il primo di tante sperimentazioni e mascheramenti. Claude è un nome che in francese è sospeso tra il genere maschile e quello femminile. Il cognome al contrario è un vero “affare di famiglia”, scegliendo Cahun rafforza le sue origini ebraiche acquisendo il cognome della nonna paterna. Cahun è una forma francese di Cohen, che indica un’evidente appartenenza alla classe rabbinica. Non è solo il nome ad essere oggetto di verifiche e dissimulazioni, il suo stesso corpo fisico è già fin dai vent'anni oggetto di sperimentazioni e mascheramenti attraverso l’utilizzo costante dell’autoritratto utilizzato fino agli ultimi anni di vita, nel 1954. Già attorno al 1919 si rade i capelli, le ciglia e le sopracciglia a zero, poi negli anni colorerà quegli stessi capelli di rosa, d'oro, d'argento. Si vestirà in modo stravagante o provocatoriamente maschile, ostenterà il monocolo che è un simbolo lesbico di primo Novecento, si colorerà le labbra e le guance come un clown, disegnerà sulla maglietta, assieme alla frase scherzosa I am in training don't kiss me, due cerchietti in corrispondenza dei seni. Attraverso un processo di costruzione di sé riassume origini e famiglia e, allo stesso tempo si dichiara come appartenente ad una specie di indefinito terzo sesso. L’idea del neutro è dichiarata nel messaggio appeso al piccolo letto dell’opera di oggetti cosiddetti "a funzionamento simbolico" Un Air de Famille esposta nel 1936, scrive:<<Maschile? Femminile? […] Neutro è il solo genere che fa per me>> [1]

Ancora studentessa alla Sorbone, nel 1919, ha i primi contatti con Luis Aragon, André Breton, Philipe Soupault futuri protagonisti del Surrealismo. Viene invitata a partecipare alla rivista “Littérature”. Negli anni venti è stabile a Parigi, frequenta l’ambiente artistico post Dada. Ha ospitato nel suo studio durante piccole mostre, cene o incontri, alcune delle personalità di spicco della vita intellettuale, tra cui Henri Michaux, Robert Desnos, André Breton, Tristan Tzara, Georges Bataille, Man Ray o René Crevel. Ha preso parte attiva alle grandi cause del suo tempo: l'emancipazione dei costumi, la rivoluzione sociale, la sovversione poetica o la lotta contro Nazismo. Nel 1937 lascia Parigi per trasferirsi con la sua compagna Marcel Moore nell’isola di Jersey. Nel 1944 la Gestapo arresterà lei e Marcel, a questo evento drammatico già di suo, seguirà il saccheggio della sua casa e la gran parte dei suoi archivi e delle sue opere fotografiche andrà distrutta.[2] Claude Cahun e Marcel Moore furono messe in carcere dal 25 luglio 1944 all’8 maggio 1945 e, condannate a morte. Dopo la Liberazione presero in considerazione l’idea di tornare a Parigi, ma le condizioni precarie di salute di Claude lo impedirono. Morì 8 dicembre 1954, Marcel si tolse la vita il 19 febbraio 1972. La collezione (504 tra autoritratti, ritratti, fotomontaggi e foto di assemblage) oggetti, manoscritti, disegni che Claude aveva lasciato a Marcel appartengono oggi al Jersey Heritage Trust.[3]




A lungo ignorato, il lavoro fotografico di Claude Cahun ha beneficiato negli ultimi anni di un'accoglienza notevole. E’ rimasta pressoché sconosciuta fino al 1985, quando alcune sue immagini vengono incluse in due mostre sul Surrealismo: L'amour fou. Photography and Surrealism alla Corcoran Gallery of Art di Washington e Explosante Fixe Photographic and Surrealisme al Centre Georges Pompidou di Parigi. In Celibi, Rosalind Krauss ricorda che i recensori americani di L'Amour Fou: Surrealism and Photography pensarono fosse un uomo[4], e anche le più complete antologie dedicate alla partecipazione femminile al Surrealismo non la considerarono affatto. Nel 1992, François Leperlier pubblica Claude Cahun, L'écart et la métamorphose che apre finalmente la strada a molte pubblicazioni e mostre sul suo lavoro: nel 1994 all’ICA di Londra, nel 1995 al Museum of Modern Art di Parigi, nel 1997 al Ginza Artspace di Tokyo e Munich Pinakothek.[5] Un altro merito da tributare a François Leperlier, nella riscoperta dell'opera di Cahun, è quello di aver pubblicato l'inedito scritto autobiografico Confidences au miroir, elaborato tra 1945 e 1946 dopo la traumatica esperienza della prigionia.[6]

L'influenza del background surrealista sulla fotografia di Cahun è evidente. Molti dei suoi lavori rivelano chiari debiti con le tematiche del doppio e del mimetismo, con il fascino della maschera e dello specchio, con l'androginia e l'inversione ma in particolare con le teorie sull'informe. Per lo studioso francese Leperlier la metamorfosi del sé, da cui Cahun è così attratta, è ben evidente anche nell'ostentato eclettismo e nell'affannosa ricerca che manifesta a più riprese come poetessa, saggista, critico letterario, novellista traduttrice, attrice di teatro, costruttrice ed esploratrice di oggetti, attivista rivoluzionaria, tutto va sperimentato come territorio affermazione e riconoscimento della propria identità  ma è la sua originalissima attività fotografica quella che invece appare oggi veramente innovatrice e anticipatrice della poetica e della ricerca estetica di artisti anche molto recenti.[7]
A diciassette anni Claude avverte che la macchina fotografica è come un'arma incredibile, lo strumento che certificherà quale strana creatura in evoluzione, dalle caratteristiche incerte e ibride, lei sia. Per quasi quarant'anni, Claude Cahun ha praticato l'autoritratto, la vera costante della sua vita, una forma di verifica quotidianaPrivilegiando la messa in scena di se stessi (autoritratto), degli altri (ritratto), delle cose (pitture fotografiche) e dei segni (fotomontaggi), pone la fotografia al servizio di un'esperienza intima, esistenziale e poetica, le cui motivazioni sono ampiamente spiegate nell'opera letteraria e che mira a destabilizzare la percezione del reale, per affermare la sovranità dell'immaginario. Mai prima di lei, nella storia della fotografia, l'interrogarsi sull'identità, ha assunto una tale intensità. Attraverso il travestimento, il gioco delle maschere o lo spogliarello, non smetterà di distribuire i ruoli, moltiplicando le immagini di sé fino a raggiungere i limiti di questa "indefinitezza" sessuale che sognava di fare di sé un terzo genere. 



I primi fotomontaggi sono del 1927-28, vengono realizzati rielaborando materiale fotografico autobiografico, e a partire dal 1937 diventa uno strumento di polemica e di contropropaganda. Succede quando, avvertendo già la pressone del regime nazista, Claude e la sua compagna Marcel Moore si ritirano nell'isola di Jersey presso la dimora detta La Rocquaise. Jersey era stata meta di vacanze fin da quando erano ragazzine. Negli anni di Jersey la tecnica del fotomontaggio acquisirà una matrice politica di denuncia sociale. Affiggevano o distribuivano clandestinamente nel paese messaggi anonimi, nei quali invitavano i soldati del Reich all'ammutinamento (Marcel conosceva piuttosto bene il tedesco). Seguendo in questo le orme dei dadaisti berlinesi e soprattutto di John Heartfield, del quale nel 1935 avevano potuto vedere i lavori esposti Parigi.
Ad eccezione delle ventidue fotografie che nel 1937 illustreranno la raccolta di poesie di Lise Deharme dal titolo Coeur de Pic con una prefazione di Paul Eluard; un solo autoritratto del 1929 uscito per la rivista "Bifur" (n.5 dell’aprile 1930); dieci fotomontaggi realizzati assieme a Marcel Moore, pubblicati in Aveux non avenus una raccolta autobiografica di dialoghi, aforismi, e scritti di varia natura, edita nel 1930; il doppio autoritratto Que me veux-tu? del 1928 che fu preso a modello per la copertina di Frontières Humaines di George Ribemont-Dessaignes, tutta la sua produzione fotografica è pensata come un'espressione individuale e non destinata al pubblico. Centinaia di autoritratti e fotomontaggi vari resteranno praticamente sconosciuti. Questa mole di scatti è realizzata quasi interamente con una Kodak Pocket Camera e alcuni considerati autoritratti sono stati realizzati probabilmente da Marcel Moore. La scelta di non aggiornarsi tecnologicamente ha fatto sì che alcuni ritenessero che il suo lavoro non potesse essere equiparabile a quello "di un fotografo nel senso veramente professionale" del termine, Dora Maar ha detto di lei <<Non era una mia amica, era una filosofa e non una fotografa>>[8]. Dice Muzzarelli a conclusione del saggio su Cahun ne Il corpo e l'azione "L'immediatezza, il valore intensamente concettuale con cui vengono realizzati gli autoritratti, non ha nessun bisogno di migliorie in fatto di apparecchi e strumentazioni varie. La piccola Kodak le serve da  trampolino di lancio per l'immaginario, la realizzazione di una fotografia "bella" o meglio organizzata visivamente sono problemi che mette assolutamente in secondo piano.[9]
ARC


I principali riferimenti per questo testo sono i seguenti libri:

Federica Muzzarelli, Il corpo e l’azione. Donne e fotografia tra otto e novecento, Atlante, Bologna, 2007

François Leperlier, “L’oeil en scène” introduzione a Claude Cahun, Photo Poche, Acted Sud, 2011

Rosalind Krauss, Celibi, Codice, Torino, 2004

Silvia Mazzucchelli, Oltre lo specchio. Claude Cahun e la pulsione fotografica, Johan & Levi editore, 2013 



[1] L’opera parteciperà a due esposizioni d'arte collettive del gruppo surrealista: a Londra nella "Exposition internationale du Surréalisme" e a Parigi presso la Charles Ratton Gallery cit., Silvia Mazzucchelli, Oltre lo specchio. Claude Cahun e la pulsione fotografica, Johan & Levi editore, 2013

[2] Claude Cahun, “L’oeil en scène" introduzione di François Leperlier, Photo Poche, Acted Sud, 2011

[4] R. Krauss, Celibi, Codice, Torino, 2004, p.26

[5] Claude Cahun, “L’oeil en scène” introduzione di François Leperlier, Photo Poche, Acted Sud, 2011

[6] Federica Muzzarelli, Il corpo e l’azione. Donne e fotografia tra otto e novecento, Atlante, Bologna, 2007

[7] Federica Muzzarelli, Il corpo e l’azione. Donne e fotografia tra otto e novecento, Atlante, Bologna, 2007

[8] Commento riportato in F. Leperlier, Claude Cahun, L'Exotisme intérieur, op.cit., p. 336.

[9] Federica Muzzarelli, Il corpo e l’azione. Donne e fotografia tra otto e novecento, Atlante, Bologna, 2007 p.202

martedì 21 marzo 2023

La ragazza elettrificata




Atsuko Tanaka[1] (1932-2005), membro di Gutai e straordinaria matriarca di tutte le performer è l’ideatrice del “Vestito elettrico”, opera di ispirazione futurista e dada, opera-azione di un corpo elettrificato. Si narra che l’artista abbia immaginato quest’opera ispirata dalle luci di un’insegna pubblicitaria. <<Me ne stavo seduta – racconta l’artista – su una panchina della stazione di Osaka, quando ho visto l’insegna di una pubblicità di prodotti farmaceutici, scintillanti di luci al neon. Trovato! Voglio fare un vestiti con i neon!>> [2] Quest’opera e il suo intero lavoro rappresentano ancora oggi un riferimento importante per le artiste. Lei è stata la prima fra le tante artiste del Sol Levante ad aprire l’arte alla performance, al corpo come materia artistica. Tanaka introduce corpo e movimento nell’arte plastica, associa una specie di seconda pelle fatta di un grappolo di accensioni elettrificate, prefigura quanto la tecnologia si sarebbe compenetrata alla sfera organica al punto da creare una sovrapposizione inesorabile tra le nostre funzioni biologiche e gli apparati di provenienza industriale. Oggi quasi nessuno esce di casa senza avere in tasca uno smartphone o resta totalmente disconnesso volontariamente, le carte guida delle città sono oggetti affettivi, chiunque preferisce un navigatore satellitare. L’opera per la quale è più conosciuta “Il vestito elettrico” raccoglie le suggestioni di una tecnologia che proprio in Giappone sarebbe esplosa nel culto di un progresso febbrile, per abbinarlo a movenze corporali, alla dimensione fisiologica, assimilato proprio nel bagaglio genetico di un’umanità bionica, un Koden. Koden è un termine piuttosto recente, è la forma contratta di Ko = individuo e denshi = elettronica e, testimonia la fusione di elementi organici e inorganici attraverso l’uso di protesi tecnologiche, suona più o meno come individuo elettrificato. Il lavoro di Tanaka è straordinariamente collegato, nell’idea di utilizzare la luce elettrica e i suoni, alle intuizioni futuriste di Luigi Russolo e Umberto Boccioni, sebbene l’interesse per la fusione natura e artificio hanno già un fondamento nella società giapponese, così come il concretizzarsi dell’impalpabile, l’interesse per oggetti insignificanti è dada, seppure è presente nel Satori [3].

Atsuko Tanaka entra a far parte del gruppo Gutai nel 1955, ne uscirà dieci anni dopo, in questo arco di tempo solleciterà l’interesse per la tecnologia, per il rapporto tra organico e inorganico ponendo le basi per quell’attrazione che oggi definiamo il sex-appeal dell’inorganico [4]. Viene introdotta nel gruppo da Akira Kanayama che nel 1952, prima di far parte di Gutai, assieme a Shiraga Kazuo e Saburo Murakami aveva fondato Zero-Kai, un gruppo artistico sperimentale. L’incontro con Jiro Yoshihara artista informale, più anziano di tutti loro, teorico del gruppo, determinerà l’ingresso dei componenti di Zero-Kai in Gutai e per certi versi ne condizionerà alcuni aspetti specificatamente pittorici.
Tanaka espone per la prima volta con Gutai alla Ohara Kaikan, in quella che è ufficialmente la I Esposizione Gutai di Tokio nel 1955, con due lavori. Nel primo l’ascendenza duchampiana è esplicita: dei semplici ritagli di tessuto rettangolare, a prima vista simili a tele vuote in attesa di essere dipinte. I teli, tuttavia, non sono pensati per ospitare segni pittorici. Così come a suo tempo Duchamp aveva lasciato filtrare l’aria da una griglia metallica che si muoveva in base alle leggi del caso, allo stesso modo Tanaka fa danzare i panni alla brezza fra i corridoi del museo. L’enfasi non cade sui riquadri di tessuto, puramente strumentali, bensì sul tremolio provocato dall’aria, elemento concreto benché impalpabile e non visibile a occhio nudo. Ancora nel 1955 presenta un’opera costituita di 10m² di seta rosa luccicante posizionata a 30cm da terra lasciata fluttuare al vento. In omaggio all’artista scomparsa poco prima, nel 2007 l’opera è stata riprodotta per Documenta 12, a Kassel. Se con i teli la corrente d’aria diventa materia da esposizione, un altro tipo di corrente, quella elettrica, alimenta i campanelli di Work (Bell) che l’artista modula su sonorità variabili in un grido artificiale, in successione tra le stanze del museo. Nel 1956, nella seconda esperienza all’aperto di Gutai “en plein air” di Ashiya, Tanaka all’apparenza sembra aver confezionato delle sculture iconiche piuttosto elementari, sette sagome umanoidi di tela con le quali centra un obiettivo cardinale delle neoavanguardie ovvero considerare tra gli stimoli sensoriali con l’uso diretto del corpo, dei muscoli della pelle, anche manifestazioni extraorganiche, specialmente quando queste si presentano sotto forma di luci artificiali. Ecco, appunto, sette vestiti enormi disposti in parata a costituire uno sbarramento, quasi si trattasse di spiriti, di guardiani della notte. E’ proprio al buio che quei fantasmi di lenzuola escono allo scoperto in un bagliore di luci elettriche, di tubi luminosi. Altri componenti del gruppo, come accade per Saburo Muratami con “Aria” 1956, un cubo in vetro (a cui Yoko Ono renderà omaggio nell’opera Water Piece), Akira Kanayama “Pallone gigante” 1957 rigonfio d’aria, in espansione costante, all’interno pulsazioni luminose, insistono orientandosi verso soluzioni extra-artistiche. Il ponte con ciò che Piero Manzoni sperimenta in questi anni con Corpi d’aria, Linee, Sculture viventi e scatole è chiaro, ne ritroveremo semi anche in Yoko Ono, Takako Saito e Mieko Shiomi. La direzione di Tanaka è ancora, però, quella del corpo e della tecnologia. E’ presente nel 1956 a Ohara Kaikan di Tokio alla II Esposizione con lavori la cui matrice aprirà interessanti legami con buona parte dell’arte giapponese a venire. Prosegue nella sua direzione Koden (individuo + elettrificazione) con l’utilizzo della luce elettrica e assembla un oggetto che è insieme scultura e tuta da performance, “Il vestito elettrico”. L’opera è un groviglio di cavi, tubi e bulbi luminosi, coloratissimi, da indossare come costume di una supereroina manga, di una regina fotonica, di una donna bionica, un innesto di biologia e artificio. Il corpo e l’abito tornano ancora in una manifestazione on stage all’Asahi Kaikan di Osaka del 1957 con “Vestiti di scena”. Sul palco l’artista appare visibilmente ingrossata rispetto alla sua abituale corporatura, abbigliata a più strati di tessuto che toglie scoprendo altri vestiti, tutti di colori diversi, fino a rimanere con una tuta aderente. Altre azioni di Tanaka realizzate quell’anno sono riportate da Jiro Yoshihara in alcuni scritti, dai quali, seppure brevi e telegrafici si evince la totale sintonia con il mondo dell’elettronica e il corpo elettrificato: <<Dalla tenda aperta sul retro appare una forma a croce, sui lati attori che con indosso vestiti luminosi, e tra loro anche l’autrice, a far spegnere e accendere piccole lampadine>>[5] Nell’edizione del 1958 sposta esclusivamente sulla luce e l’immaterialità l’azione realizzando enormi dischi da cui escono fasci luminosi, in un happening totalmente immateriale. In sintonia totale con il mondo dell’elettronica sono anche i disegni, strutture astratto–geometriche non molto distanti dalla bidimensionalità neoplastica di un Mondrian, Klee e Kandinskij già instradate su linee superflat che rientrano perfettamente in veri e propri schemi elettrici, schede madri, chip e linee di raccordo tra bobine, connessioni, cavi, percorsi lamellari. La sua ricerca dopo il 1965, anno in cui lascia Gutai prosegue da solista. Muore nel 2005. Negli anni recenti molti omaggi, recuperi hanno messo in luce l’importanza di questa artista nel panorama contemporaneo.

Taccuino

Gutai. Osaka 1954, sotto la direzione artistica e concettuale di un grande vecchio dell’arte nipponica Jiro Yoshihara (1905-1972) esponente dell’arte informale, si raccoglie un drappello di ragazzi che fin dalla prima esposizione mettono in chiaro quali sono le linee guida del gruppo: una radicale ricerca del nuovo, un’apertura incondizionata su vari aspetti del fare che contempla tanto la pittura quanto l’azione performativa. Il nome è Gutai, il primo gruppo artistico a praticare sistematicamente l’happening, precedendo e influenzando gli artisti americani. La prima mostra è del 1954 a Osaka, come tutte quelle a seguire sarà accompagnata da un bollettino “Gutai”. In tutto ne usciranno 15. Pittura informale e extra pittorico nella lunga storia del gruppo resteranno tra di loro spesso conflittuali, seppure considerati collegati da un’unica volontà artistica e un processo esecutivo grazie al quale spesso il dipinto non è che traccia, resto della performance compiuta. Alcuni membri del gruppo, più di altri, orienteranno la loro ricerca in direzione dell’extrartistico verso un rilancio Dada e Futurista: suono, elettricità, tecnologia, performance. Centro di tutti i lavori è il ripudio della figura. Il nome Gutai significa volontà di concretizzare la spiritualità della materia, materializzazione. Sin dalla sua origine, nel Manifesto dell’arte Gutai le parole di Jiro Yoshihara mettono immediatamente in evidenza la doppia anima di Gutai. Emerge, da una parte, la magnificazione della materia <<L’arte Gutai dà vita alla materia. La materia rimane tale e, quando viene sollecitata, rivela le sue proprietà, comincia a raccontare la sua storia, a gridarla anche>>, chiaro il richiamo all’Espressionismo astratto, al rifiuto di aderire a riproduzioni figurative, dall’altra il gruppo apre la porta a ben altre prospettive come la performance <<Siamo aperti a ogni sorta di esperienza, arti corporali, arti tattili, anche musicali>>[6]. L’evento decisivo che dà coesione alla squadra si svolge ad Ashiya, nel 1955, Ashiya Park, fuori dalle quattro mura di una galleria, per la prima volta all’aperto, nello spazio reale tra performance e azioni pittoriche. Un’accelerata, un salto che nessun artista fino ad allora aveva osato intraprendere. Nei 18 anni di attività, Gutai oscilla con risultati altalenanti, tra vecchie soluzioni e salti prodigiosi, per concludere il suo percorso nel 1972, data di scioglimento ufficiale del gruppo e morte di Jiro Yoshihara.

ARC

I principali riferimenti per questo testo sono i seguenti libri:

Fabriano Fabbri, Lo zen e il Manga. Arte contemporanea giapponese, Bruno Mondadori, Milano, 2009

Umberto Eco, Opera Aperta, “Lo zen e l’occidente”, Bompiani, Milano 1967
Mario Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino, 1994