giovedì 30 aprile 2020

L'ANGOLO DELL'OSSERVANZA


 

 

Trascorreva gran parte della giornata ad abitare nell’altrove del suo tablet o praticare il rito dell’osservanza attraverso la vetrata di un bar; invisibile e silenzioso, aveva messo tra se e gli altri uno schermo totale. Cos'era in fondo il distanziamento di cui parlavano? Si era allenato tutta la vita all’isolamento, non aveva bisogno di una giusta distanza. Per lui non esisteva distanza più giusta della sua.
Negli ultimi vent’anni, la sua vita si era estesa fino ad abbracciare continenti nei quali non avrebbe mai messo piede: prima era apparsa la realtà aumentata del Wi-Fi domestico, i tablet, gli smartphone, poi era arrivato anche quel piccolo bar, che pareva una contraddizione, ma lo schermo era schermo, comunque lo si chiamasse. Era stata la scoperta più entusiasmante della sua vita, gli aveva permesso di stare tra la gente senza partecipare concretamente alla loro vita, senza che gli venisse chiesto un contatto fisico, uno scambio emotivo, un’opinione. Tranne il barista, che lo faceva per professione, nessuno gli rivolgeva mai la parola. Si considerava l’ultimo testimone. Solitamente, messo via il tablet prendeva il suo Moleskine nero, una penna a inchiostro liquido e attendeva che oltre le vetrate, nell’acquario metropolitano, iniziasse la sfilata dei suoi pesciolini urbani.
Oggi, però, non era un giorno come gli altri. 

Corporatura minuta, pelle olivastra, uno sguardo tra il triste e il rassegnato, Leela (l’aveva chiamata così, in omaggio al romanzo di Hari Kunzru) la ragazza che sedeva sul sagrato della chiesa, non era lì. Non c’era neppure il posteggiatore africano, con il suo carico di fazzolettini, accendini e pezze per la polvere. Lo aveva chiamato Zuri, come il paese le cui strade erano diventate un lago, perché aveva saputo in Africa essere un nome proprio di persona.
Il ragazzo che svuotava i cesti dell’immondizia, il commesso del negozio di ottica, il libraio, le ragazze della cartoleria, la signora Adele della merceria, il piazzaiolo egiziano erano gli attori fissi delle sue storie, quelli che occupavano sempre la stessa posizione, ogni mattina, ogni giorno e oggi non erano lì. Eppure c’era Padre Carmelo, che inspiegabilmente solitario puliva gli scalini della chiesa.
I suoi preferiti erano quelli in transito: liceali, insegnanti, artisti, gli impiegati del palazzo di giustizia, i custodi del museo, anche loro oggi non c’erano. Passavano solo i figuranti e le comparse, quelli occasionali. Guardava amareggiato quelle strade desolatamente vuote, il traffico automobilistico che lo aveva agitato poco prima si era dissolto, una certa frustrazione stava prendendo il sopravvento. Dov’erano finiti, tutti?
Sul marciapiede opposto una ragazza con mascherina e guanti in lattice si trascinava dietro un carrellino della spesa; qualcuno con il cane camminava lento, fermandosi ad ogni aiuola, motorino, palo della luce -ricordava quando i cani dovevano arrancare dietro ai loro padroni sbrigativi, annusare di fretta e altrettanto di fretta liberarsi la vescica-; un tizio in tenuta sportiva, mai visto prima, camminava a passo veloce, totalmente sconosciuto.
Non erano i suoi personaggi, non quelli che aveva osservato ogni giorno. Erano estranei. Dov’era finita Luisella la ragazza con i capelli verdi che camminava a testa bassa concentrata sulla playlist del suo smartphone? Dov’erano Gianpiero e Sergio i brufolosi liceali vestiti come due giocatori di basket americano? Dov’era il giudice ingobbito dal peso della sua borsa? Dov’erano?
Aveva deciso di appuntare i nomi degli assenti, poi, cercare di dare un volto a quelle nuove figure, un volto a metà, senza bocca e senza naso.
Si era imposto di catalogarli tutti, sempre, ogni giorno, il cambiamento non avrebbe corrotto il progetto. Avrebbe disegnato anche i nuovi camminatori. Era questa l’ultima pagina del suo diario? Si chiedeva. Ora come ora, non poteva dirlo.
Abbassata la testa, aveva iniziato a tracciare i contorni del carrellino per la spesa.


Dalle medie l’aggeggio elettronico aveva incarnato il passe-partout dei suoi desideri, che fosse musica, film, videogiochi, chat, sport. Attivato da un impulso elettrico, attraversato dai dati trasmessi in onde radio verso ogni luogo, aveva rappresentato un lasciapassare tascabile direzione il mondo intero. Per lui, il tablet era stato un vero e proprio portale aperto verso gli altri. I sociologi definivano il suo un “isolamento sociale”, quelli come lui li avevano chiamati in vari modi Otaku, Hikikomori come se un nome esotico cambiasse qualcosa. A dire il vero non si riconosceva per niente in quelle definizioni, non riteneva di avere niente in comune con quei ragazzi chiusi nelle loro tane. Per via dell’effetto “vicinanza a distanza”, che internet consentiva, non si era mai sentito così associato come in questo momento.
Non andava a cena fuori, al cinema, erano anni che non abbracciava qualcuno, ma non era certo questa la vicinanza, ed era consapevole essere altre le distanze. Non era un recluso credibile, non nel senso che si dà comunemente a questo termine, infatti, per quanto la tavoletta delle meraviglie soddisfacesse le sue esigenze, non le esaudiva tutte, perciò da qualche anno aveva attivato una specie di streaming a grande schermo, una distanza differente, moderna eppure antica, la flânerie sedentaria: frequentava un bar, a cui si recava ogni mattina.

Sempre lo stesso tragitto. Testa bassa, pollici a ritmo alternato sulla tastiera e, via. Non gli serviva altro. Anzi, no. In realtà, c’erano alcuni particolari da perfezionare, come ad esempio coordinare il ritmo dei pollici con l’andatura dei piedi. Nei momenti più concitati, accadeva che durante la scrittura di un testo particolarmente acuto, tendeva ad accelerare il ritmo dei pollici e di riflesso riduceva l’incedere dei piedi. Spesso, questa decelerazione involontaria modificava i tempi di percorrenza che si era dato e lo mandava in confusione.
Quella mattina, ad esempio, per via dell’incapacità di scrivere e camminare simultaneamente, aveva modificato la sua consueta andatura, per natura già alquanto fiacca, ed era arrivato al semaforo nel momento stesso in cui scattava il rosso. Imperdonabile. Era proprio per ovviare a questi incidenti, che tempo prima aveva cronometrato i tempi di percorrenza dalla sua abitazione a tutti i semafori che incontrava durante il tragitto e, tracciato un cammino calibrato sulla sua andatura, così da arrivare preciso allo scattare del verde. Questo sistema avrebbe dovuto rappresentare l’antidoto agli ostacoli, ma non sempre funzionava.
In qualche modo doveva recuperare il tempo perduto. Non poteva fare tardi, non oggi.
Quasi a voler riscattare una vita di totale remissività, al contrario delle altre, questa volta si era ripromesso di provare un azzardo: non obbedire allo stop. Spinto da un impulso infantile, con l’incedere entusiasta del cucciolo di labrador sguinzagliato, aveva deciso di non fermarsi, anzi, accelerare il passo e quasi correre. Si era lanciato ansimante al centro della carreggiata come uno leprotto di fronte ai fari di un’auto per ritrovarsi smarrito a metà attraversamento pedonale, accerchiato da SUV, motorini e utilitarie incazzate. Per una frazione di secondo aveva alzato le mani, poi, preso atto che non sarebbe mai riuscito a passare dall’altra parte, con respiro affannoso e battito accelerato, per giunta sollecitato dal segnale acustico di una lunga fila di automobilisti nervosi, era saltellato all’indietro e rientrato al punto di partenza.
Si era sentito avvilito per non essere riuscito nell’impresa, ma allo stesso tempo orgoglioso per averci almeno provato.
Era un uomo incline alla riflessione, non aveva un’indole temeraria, pertanto, era cosciente che infrangere le regole sociali del semaforo era stata un’imprudenza che non gli apparteneva. Rassegnato, avrebbe atteso che l’omino rosso sull’attenti, quello che nel linguaggio universale metropolitano significava FERMO! svanisse e come per magia comparisse l’omino verde a gambe divaricate che dice VAI!
Sarebbe arrivato in ritardo. 
Giunto all’ingresso, aveva subito constatato che qualcuno si era seduto sulla sedia del tavolino ad angolo, il suo preferito. Negli anni, aveva appreso trattarsi di un posto molto ambito, desiderato dalla maggior parte dei clienti del bar, compreso lui, il quale lo considerava la sua postazione privilegiata. Ritardare significava fare colazione in piedi e uscire. Se il tempo era buono, aspettare fuori in attesa che l’intruso si alzasse, altrimenti rinunciare.
Da quel cantuccio aveva una visuale quasi completa dell’intorno, vedeva tutti e in tutte le direzioni. Una sorta di palco reale, effetto cinemascope, la sua vista favorita sulla realtà.
Doveva riconquistare l’angolo, poiché oggi avrebbe svolto l’ultimo esperimento di flânerie sedentaria.
Per via dell’isolamento sociale a scopo sanitario sancito dal decreto ministeriale Tutti a casa, a partire dalla data odierna bar, ristoranti, attività ludiche di aggregazione sociale, avrebbero chiuso a tempo indefinito. La pandemia, con le sue regole di distanziamento e l’obbligo alla domiciliazione lo avrebbe ancora una volta respinto nella sua tana. Aveva deciso di aspettare. Forse quel cliente sarebbe andato via.
Il bar si trovava all’incrocio di grandi arterie viarie, aveva bellissime vetrate ad angolo da cui si potevano vedere gli studenti dell’Accademia attardarsi con le cartelle sotto braccio, gli impieganti e gli inseganti contendersi i pochi parcheggi ancora liberi, gli avvocati e i magistrati, carichi di incartamenti, incamminarsi come sherpa sulla collina, verso il tribunale, poi c’erano quelli che passavano per una preghiera mattutina alla parrocchia dell’angolo e tutt’intorno liceali vocianti, ognuno diretto alla propria scuola. Dagli abiti poteva immaginare le professioni, le aspirazioni, i fallimenti. Immaginare vite. Si poteva perdere a guardare quell’acquario fatto di pesci urbani, di persone in affanno verso un impiccio e trattenersi fino all’ora di pranzo senza rendersi conto del tempo trascorso.
Fatta eccezione per i giorni in cui aveva ritardato, erano anni che li vedeva passare. Non conosceva nessuna di quelle persone, ma li aveva nominati tutti: a ciascuno il nome più appropriato, adatto al ruolo, all’abbigliamento, alla professione. Scriveva tutto sul suo taccuino, accompagnava i testi a veloci schizzi, in alcuni casi, tracciava più dettagliati ritratti. Aveva accumulato centinaia e centinaia di volti, atteggiamenti, costumanze, trasformazioni. Nel tempo poi, i liceali si erano diplomati, gli adulti andati in pensione, alcuni studenti erano passati dall’altra parte come professori, avvocati, impiegati. Li aveva visti trasformarsi, cambiare abbigliamento, stile, accompagnare i figli all’asilo, a scuola, invecchiare. Alcuni, negli anni erano scomparsi, avevano forse cambiato strada, lavoro, scuola, qualcuno forse era defunto. Erano tutti inconsapevoli componenti della sua famiglia virtuale, parte integrante della sua vita.
Aveva fatto uno schizzo veloce di Padre Carmelo in versione inserviente: col saio, i saldali, quanti in lattice e mascherina. La ragazza con il carrellino l’aveva chiamata Valeria, mentre avanzava lungo il viale ne aveva tracciato sommariamente i tratti a figura intera, una sagoma scura senza volto, poi mentre si avvicinava aveva catturato alcune caratteristiche come le orecchie, gli occhi. La bocca e il naso poteva solo immaginarli, la mascherina copriva completamente il volto. Al contrario dei suoi soggetti storici, di lei non avrebbe potuto catturare i cambiamenti stagionali nell’abbigliamento, i tagli di capelli nel corso degli anni. Uscita dalla sua visuale, l’aveva lasciata andare, ed era passato al tizio col cane, poi al runner.
La giornata era finita così: sagome senza volto e ombre silenziose.

Arriveranno i giorni della riapertura e i suoi attori lo ritroveranno qui, nell'angolo dell'osservanza, testimone.