giovedì 30 marzo 2023

Claude allo specchio

 


Lucy Schwob scrittrice, filosofa drammaturga, che in tutta la sua vita non ha mai smesso di interrogarsi sulla propria identità e di agire su di essa, cambia nome. Detto così, non sembra un fatto eccezionale, lo aveva fatto già moltissime volte durante la sua attività di scrittrice e giornalista, aveva utilizzato pseudonimi ironici, rivoluzionari e scomodi come Claude Courlis, Alfred Douglas. Sembrerebbe un vezzo come un altro. Nata a Nantes come Lucy Schwob, il 25 ottobre 1894 da una famiglia di intellettuali, scrittori, giornalisti di origine ebraica, a partire dal 1917 si farà chiamare definitivamente Claude Cahun. E' il primo di tante sperimentazioni e mascheramenti. Claude è un nome che in francese è sospeso tra il genere maschile e quello femminile. Il cognome al contrario è un vero “affare di famiglia”, scegliendo Cahun rafforza le sue origini ebraiche acquisendo il cognome della nonna paterna. Cahun è una forma francese di Cohen, che indica un’evidente appartenenza alla classe rabbinica. Non è solo il nome ad essere oggetto di verifiche e dissimulazioni, il suo stesso corpo fisico è già fin dai vent'anni oggetto di sperimentazioni e mascheramenti attraverso l’utilizzo costante dell’autoritratto utilizzato fino agli ultimi anni di vita, nel 1954. Già attorno al 1919 si rade i capelli, le ciglia e le sopracciglia a zero, poi negli anni colorerà quegli stessi capelli di rosa, d'oro, d'argento. Si vestirà in modo stravagante o provocatoriamente maschile, ostenterà il monocolo che è un simbolo lesbico di primo Novecento, si colorerà le labbra e le guance come un clown, disegnerà sulla maglietta, assieme alla frase scherzosa I am in training don't kiss me, due cerchietti in corrispondenza dei seni. Attraverso un processo di costruzione di sé riassume origini e famiglia e, allo stesso tempo si dichiara come appartenente ad una specie di indefinito terzo sesso. L’idea del neutro è dichiarata nel messaggio appeso al piccolo letto dell’opera di oggetti cosiddetti "a funzionamento simbolico" Un Air de Famille esposta nel 1936, scrive:<<Maschile? Femminile? […] Neutro è il solo genere che fa per me>> [1]

Ancora studentessa alla Sorbone, nel 1919, ha i primi contatti con Luis Aragon, André Breton, Philipe Soupault futuri protagonisti del Surrealismo. Viene invitata a partecipare alla rivista “Littérature”. Negli anni venti è stabile a Parigi, frequenta l’ambiente artistico post Dada. Ha ospitato nel suo studio durante piccole mostre, cene o incontri, alcune delle personalità di spicco della vita intellettuale, tra cui Henri Michaux, Robert Desnos, André Breton, Tristan Tzara, Georges Bataille, Man Ray o René Crevel. Ha preso parte attiva alle grandi cause del suo tempo: l'emancipazione dei costumi, la rivoluzione sociale, la sovversione poetica o la lotta contro Nazismo. Nel 1937 lascia Parigi per trasferirsi con la sua compagna Marcel Moore nell’isola di Jersey. Nel 1944 la Gestapo arresterà lei e Marcel, a questo evento drammatico già di suo, seguirà il saccheggio della sua casa e la gran parte dei suoi archivi e delle sue opere fotografiche andrà distrutta.[2] Claude Cahun e Marcel Moore furono messe in carcere dal 25 luglio 1944 all’8 maggio 1945 e, condannate a morte. Dopo la Liberazione presero in considerazione l’idea di tornare a Parigi, ma le condizioni precarie di salute di Claude lo impedirono. Morì 8 dicembre 1954, Marcel si tolse la vita il 19 febbraio 1972. La collezione (504 tra autoritratti, ritratti, fotomontaggi e foto di assemblage) oggetti, manoscritti, disegni che Claude aveva lasciato a Marcel appartengono oggi al Jersey Heritage Trust.[3]




A lungo ignorato, il lavoro fotografico di Claude Cahun ha beneficiato negli ultimi anni di un'accoglienza notevole. E’ rimasta pressoché sconosciuta fino al 1985, quando alcune sue immagini vengono incluse in due mostre sul Surrealismo: L'amour fou. Photography and Surrealism alla Corcoran Gallery of Art di Washington e Explosante Fixe Photographic and Surrealisme al Centre Georges Pompidou di Parigi. In Celibi, Rosalind Krauss ricorda che i recensori americani di L'Amour Fou: Surrealism and Photography pensarono fosse un uomo[4], e anche le più complete antologie dedicate alla partecipazione femminile al Surrealismo non la considerarono affatto. Nel 1992, François Leperlier pubblica Claude Cahun, L'écart et la métamorphose che apre finalmente la strada a molte pubblicazioni e mostre sul suo lavoro: nel 1994 all’ICA di Londra, nel 1995 al Museum of Modern Art di Parigi, nel 1997 al Ginza Artspace di Tokyo e Munich Pinakothek.[5] Un altro merito da tributare a François Leperlier, nella riscoperta dell'opera di Cahun, è quello di aver pubblicato l'inedito scritto autobiografico Confidences au miroir, elaborato tra 1945 e 1946 dopo la traumatica esperienza della prigionia.[6]

L'influenza del background surrealista sulla fotografia di Cahun è evidente. Molti dei suoi lavori rivelano chiari debiti con le tematiche del doppio e del mimetismo, con il fascino della maschera e dello specchio, con l'androginia e l'inversione ma in particolare con le teorie sull'informe. Per lo studioso francese Leperlier la metamorfosi del sé, da cui Cahun è così attratta, è ben evidente anche nell'ostentato eclettismo e nell'affannosa ricerca che manifesta a più riprese come poetessa, saggista, critico letterario, novellista traduttrice, attrice di teatro, costruttrice ed esploratrice di oggetti, attivista rivoluzionaria, tutto va sperimentato come territorio affermazione e riconoscimento della propria identità  ma è la sua originalissima attività fotografica quella che invece appare oggi veramente innovatrice e anticipatrice della poetica e della ricerca estetica di artisti anche molto recenti.[7]
A diciassette anni Claude avverte che la macchina fotografica è come un'arma incredibile, lo strumento che certificherà quale strana creatura in evoluzione, dalle caratteristiche incerte e ibride, lei sia. Per quasi quarant'anni, Claude Cahun ha praticato l'autoritratto, la vera costante della sua vita, una forma di verifica quotidianaPrivilegiando la messa in scena di se stessi (autoritratto), degli altri (ritratto), delle cose (pitture fotografiche) e dei segni (fotomontaggi), pone la fotografia al servizio di un'esperienza intima, esistenziale e poetica, le cui motivazioni sono ampiamente spiegate nell'opera letteraria e che mira a destabilizzare la percezione del reale, per affermare la sovranità dell'immaginario. Mai prima di lei, nella storia della fotografia, l'interrogarsi sull'identità, ha assunto una tale intensità. Attraverso il travestimento, il gioco delle maschere o lo spogliarello, non smetterà di distribuire i ruoli, moltiplicando le immagini di sé fino a raggiungere i limiti di questa "indefinitezza" sessuale che sognava di fare di sé un terzo genere. 



I primi fotomontaggi sono del 1927-28, vengono realizzati rielaborando materiale fotografico autobiografico, e a partire dal 1937 diventa uno strumento di polemica e di contropropaganda. Succede quando, avvertendo già la pressone del regime nazista, Claude e la sua compagna Marcel Moore si ritirano nell'isola di Jersey presso la dimora detta La Rocquaise. Jersey era stata meta di vacanze fin da quando erano ragazzine. Negli anni di Jersey la tecnica del fotomontaggio acquisirà una matrice politica di denuncia sociale. Affiggevano o distribuivano clandestinamente nel paese messaggi anonimi, nei quali invitavano i soldati del Reich all'ammutinamento (Marcel conosceva piuttosto bene il tedesco). Seguendo in questo le orme dei dadaisti berlinesi e soprattutto di John Heartfield, del quale nel 1935 avevano potuto vedere i lavori esposti Parigi.
Ad eccezione delle ventidue fotografie che nel 1937 illustreranno la raccolta di poesie di Lise Deharme dal titolo Coeur de Pic con una prefazione di Paul Eluard; un solo autoritratto del 1929 uscito per la rivista "Bifur" (n.5 dell’aprile 1930); dieci fotomontaggi realizzati assieme a Marcel Moore, pubblicati in Aveux non avenus una raccolta autobiografica di dialoghi, aforismi, e scritti di varia natura, edita nel 1930; il doppio autoritratto Que me veux-tu? del 1928 che fu preso a modello per la copertina di Frontières Humaines di George Ribemont-Dessaignes, tutta la sua produzione fotografica è pensata come un'espressione individuale e non destinata al pubblico. Centinaia di autoritratti e fotomontaggi vari resteranno praticamente sconosciuti. Questa mole di scatti è realizzata quasi interamente con una Kodak Pocket Camera e alcuni considerati autoritratti sono stati realizzati probabilmente da Marcel Moore. La scelta di non aggiornarsi tecnologicamente ha fatto sì che alcuni ritenessero che il suo lavoro non potesse essere equiparabile a quello "di un fotografo nel senso veramente professionale" del termine, Dora Maar ha detto di lei <<Non era una mia amica, era una filosofa e non una fotografa>>[8]. Dice Muzzarelli a conclusione del saggio su Cahun ne Il corpo e l'azione "L'immediatezza, il valore intensamente concettuale con cui vengono realizzati gli autoritratti, non ha nessun bisogno di migliorie in fatto di apparecchi e strumentazioni varie. La piccola Kodak le serve da  trampolino di lancio per l'immaginario, la realizzazione di una fotografia "bella" o meglio organizzata visivamente sono problemi che mette assolutamente in secondo piano.[9]
ARC


I principali riferimenti per questo testo sono i seguenti libri:

Federica Muzzarelli, Il corpo e l’azione. Donne e fotografia tra otto e novecento, Atlante, Bologna, 2007

François Leperlier, “L’oeil en scène” introduzione a Claude Cahun, Photo Poche, Acted Sud, 2011

Rosalind Krauss, Celibi, Codice, Torino, 2004

Silvia Mazzucchelli, Oltre lo specchio. Claude Cahun e la pulsione fotografica, Johan & Levi editore, 2013 



[1] L’opera parteciperà a due esposizioni d'arte collettive del gruppo surrealista: a Londra nella "Exposition internationale du Surréalisme" e a Parigi presso la Charles Ratton Gallery cit., Silvia Mazzucchelli, Oltre lo specchio. Claude Cahun e la pulsione fotografica, Johan & Levi editore, 2013

[2] Claude Cahun, “L’oeil en scène" introduzione di François Leperlier, Photo Poche, Acted Sud, 2011

[4] R. Krauss, Celibi, Codice, Torino, 2004, p.26

[5] Claude Cahun, “L’oeil en scène” introduzione di François Leperlier, Photo Poche, Acted Sud, 2011

[6] Federica Muzzarelli, Il corpo e l’azione. Donne e fotografia tra otto e novecento, Atlante, Bologna, 2007

[7] Federica Muzzarelli, Il corpo e l’azione. Donne e fotografia tra otto e novecento, Atlante, Bologna, 2007

[8] Commento riportato in F. Leperlier, Claude Cahun, L'Exotisme intérieur, op.cit., p. 336.

[9] Federica Muzzarelli, Il corpo e l’azione. Donne e fotografia tra otto e novecento, Atlante, Bologna, 2007 p.202

martedì 21 marzo 2023

La ragazza elettrificata




Atsuko Tanaka[1] (1932-2005), membro di Gutai e straordinaria matriarca di tutte le performer è l’ideatrice del “Vestito elettrico”, opera di ispirazione futurista e dada, opera-azione di un corpo elettrificato. Si narra che l’artista abbia immaginato quest’opera ispirata dalle luci di un’insegna pubblicitaria. <<Me ne stavo seduta – racconta l’artista – su una panchina della stazione di Osaka, quando ho visto l’insegna di una pubblicità di prodotti farmaceutici, scintillanti di luci al neon. Trovato! Voglio fare un vestiti con i neon!>> [2] Quest’opera e il suo intero lavoro rappresentano ancora oggi un riferimento importante per le artiste. Lei è stata la prima fra le tante artiste del Sol Levante ad aprire l’arte alla performance, al corpo come materia artistica. Tanaka introduce corpo e movimento nell’arte plastica, associa una specie di seconda pelle fatta di un grappolo di accensioni elettrificate, prefigura quanto la tecnologia si sarebbe compenetrata alla sfera organica al punto da creare una sovrapposizione inesorabile tra le nostre funzioni biologiche e gli apparati di provenienza industriale. Oggi quasi nessuno esce di casa senza avere in tasca uno smartphone o resta totalmente disconnesso volontariamente, le carte guida delle città sono oggetti affettivi, chiunque preferisce un navigatore satellitare. L’opera per la quale è più conosciuta “Il vestito elettrico” raccoglie le suggestioni di una tecnologia che proprio in Giappone sarebbe esplosa nel culto di un progresso febbrile, per abbinarlo a movenze corporali, alla dimensione fisiologica, assimilato proprio nel bagaglio genetico di un’umanità bionica, un Koden. Koden è un termine piuttosto recente, è la forma contratta di Ko = individuo e denshi = elettronica e, testimonia la fusione di elementi organici e inorganici attraverso l’uso di protesi tecnologiche, suona più o meno come individuo elettrificato. Il lavoro di Tanaka è straordinariamente collegato, nell’idea di utilizzare la luce elettrica e i suoni, alle intuizioni futuriste di Luigi Russolo e Umberto Boccioni, sebbene l’interesse per la fusione natura e artificio hanno già un fondamento nella società giapponese, così come il concretizzarsi dell’impalpabile, l’interesse per oggetti insignificanti è dada, seppure è presente nel Satori [3].

Atsuko Tanaka entra a far parte del gruppo Gutai nel 1955, ne uscirà dieci anni dopo, in questo arco di tempo solleciterà l’interesse per la tecnologia, per il rapporto tra organico e inorganico ponendo le basi per quell’attrazione che oggi definiamo il sex-appeal dell’inorganico [4]. Viene introdotta nel gruppo da Akira Kanayama che nel 1952, prima di far parte di Gutai, assieme a Shiraga Kazuo e Saburo Murakami aveva fondato Zero-Kai, un gruppo artistico sperimentale. L’incontro con Jiro Yoshihara artista informale, più anziano di tutti loro, teorico del gruppo, determinerà l’ingresso dei componenti di Zero-Kai in Gutai e per certi versi ne condizionerà alcuni aspetti specificatamente pittorici.
Tanaka espone per la prima volta con Gutai alla Ohara Kaikan, in quella che è ufficialmente la I Esposizione Gutai di Tokio nel 1955, con due lavori. Nel primo l’ascendenza duchampiana è esplicita: dei semplici ritagli di tessuto rettangolare, a prima vista simili a tele vuote in attesa di essere dipinte. I teli, tuttavia, non sono pensati per ospitare segni pittorici. Così come a suo tempo Duchamp aveva lasciato filtrare l’aria da una griglia metallica che si muoveva in base alle leggi del caso, allo stesso modo Tanaka fa danzare i panni alla brezza fra i corridoi del museo. L’enfasi non cade sui riquadri di tessuto, puramente strumentali, bensì sul tremolio provocato dall’aria, elemento concreto benché impalpabile e non visibile a occhio nudo. Ancora nel 1955 presenta un’opera costituita di 10m² di seta rosa luccicante posizionata a 30cm da terra lasciata fluttuare al vento. In omaggio all’artista scomparsa poco prima, nel 2007 l’opera è stata riprodotta per Documenta 12, a Kassel. Se con i teli la corrente d’aria diventa materia da esposizione, un altro tipo di corrente, quella elettrica, alimenta i campanelli di Work (Bell) che l’artista modula su sonorità variabili in un grido artificiale, in successione tra le stanze del museo. Nel 1956, nella seconda esperienza all’aperto di Gutai “en plein air” di Ashiya, Tanaka all’apparenza sembra aver confezionato delle sculture iconiche piuttosto elementari, sette sagome umanoidi di tela con le quali centra un obiettivo cardinale delle neoavanguardie ovvero considerare tra gli stimoli sensoriali con l’uso diretto del corpo, dei muscoli della pelle, anche manifestazioni extraorganiche, specialmente quando queste si presentano sotto forma di luci artificiali. Ecco, appunto, sette vestiti enormi disposti in parata a costituire uno sbarramento, quasi si trattasse di spiriti, di guardiani della notte. E’ proprio al buio che quei fantasmi di lenzuola escono allo scoperto in un bagliore di luci elettriche, di tubi luminosi. Altri componenti del gruppo, come accade per Saburo Muratami con “Aria” 1956, un cubo in vetro (a cui Yoko Ono renderà omaggio nell’opera Water Piece), Akira Kanayama “Pallone gigante” 1957 rigonfio d’aria, in espansione costante, all’interno pulsazioni luminose, insistono orientandosi verso soluzioni extra-artistiche. Il ponte con ciò che Piero Manzoni sperimenta in questi anni con Corpi d’aria, Linee, Sculture viventi e scatole è chiaro, ne ritroveremo semi anche in Yoko Ono, Takako Saito e Mieko Shiomi. La direzione di Tanaka è ancora, però, quella del corpo e della tecnologia. E’ presente nel 1956 a Ohara Kaikan di Tokio alla II Esposizione con lavori la cui matrice aprirà interessanti legami con buona parte dell’arte giapponese a venire. Prosegue nella sua direzione Koden (individuo + elettrificazione) con l’utilizzo della luce elettrica e assembla un oggetto che è insieme scultura e tuta da performance, “Il vestito elettrico”. L’opera è un groviglio di cavi, tubi e bulbi luminosi, coloratissimi, da indossare come costume di una supereroina manga, di una regina fotonica, di una donna bionica, un innesto di biologia e artificio. Il corpo e l’abito tornano ancora in una manifestazione on stage all’Asahi Kaikan di Osaka del 1957 con “Vestiti di scena”. Sul palco l’artista appare visibilmente ingrossata rispetto alla sua abituale corporatura, abbigliata a più strati di tessuto che toglie scoprendo altri vestiti, tutti di colori diversi, fino a rimanere con una tuta aderente. Altre azioni di Tanaka realizzate quell’anno sono riportate da Jiro Yoshihara in alcuni scritti, dai quali, seppure brevi e telegrafici si evince la totale sintonia con il mondo dell’elettronica e il corpo elettrificato: <<Dalla tenda aperta sul retro appare una forma a croce, sui lati attori che con indosso vestiti luminosi, e tra loro anche l’autrice, a far spegnere e accendere piccole lampadine>>[5] Nell’edizione del 1958 sposta esclusivamente sulla luce e l’immaterialità l’azione realizzando enormi dischi da cui escono fasci luminosi, in un happening totalmente immateriale. In sintonia totale con il mondo dell’elettronica sono anche i disegni, strutture astratto–geometriche non molto distanti dalla bidimensionalità neoplastica di un Mondrian, Klee e Kandinskij già instradate su linee superflat che rientrano perfettamente in veri e propri schemi elettrici, schede madri, chip e linee di raccordo tra bobine, connessioni, cavi, percorsi lamellari. La sua ricerca dopo il 1965, anno in cui lascia Gutai prosegue da solista. Muore nel 2005. Negli anni recenti molti omaggi, recuperi hanno messo in luce l’importanza di questa artista nel panorama contemporaneo.

Taccuino

Gutai. Osaka 1954, sotto la direzione artistica e concettuale di un grande vecchio dell’arte nipponica Jiro Yoshihara (1905-1972) esponente dell’arte informale, si raccoglie un drappello di ragazzi che fin dalla prima esposizione mettono in chiaro quali sono le linee guida del gruppo: una radicale ricerca del nuovo, un’apertura incondizionata su vari aspetti del fare che contempla tanto la pittura quanto l’azione performativa. Il nome è Gutai, il primo gruppo artistico a praticare sistematicamente l’happening, precedendo e influenzando gli artisti americani. La prima mostra è del 1954 a Osaka, come tutte quelle a seguire sarà accompagnata da un bollettino “Gutai”. In tutto ne usciranno 15. Pittura informale e extra pittorico nella lunga storia del gruppo resteranno tra di loro spesso conflittuali, seppure considerati collegati da un’unica volontà artistica e un processo esecutivo grazie al quale spesso il dipinto non è che traccia, resto della performance compiuta. Alcuni membri del gruppo, più di altri, orienteranno la loro ricerca in direzione dell’extrartistico verso un rilancio Dada e Futurista: suono, elettricità, tecnologia, performance. Centro di tutti i lavori è il ripudio della figura. Il nome Gutai significa volontà di concretizzare la spiritualità della materia, materializzazione. Sin dalla sua origine, nel Manifesto dell’arte Gutai le parole di Jiro Yoshihara mettono immediatamente in evidenza la doppia anima di Gutai. Emerge, da una parte, la magnificazione della materia <<L’arte Gutai dà vita alla materia. La materia rimane tale e, quando viene sollecitata, rivela le sue proprietà, comincia a raccontare la sua storia, a gridarla anche>>, chiaro il richiamo all’Espressionismo astratto, al rifiuto di aderire a riproduzioni figurative, dall’altra il gruppo apre la porta a ben altre prospettive come la performance <<Siamo aperti a ogni sorta di esperienza, arti corporali, arti tattili, anche musicali>>[6]. L’evento decisivo che dà coesione alla squadra si svolge ad Ashiya, nel 1955, Ashiya Park, fuori dalle quattro mura di una galleria, per la prima volta all’aperto, nello spazio reale tra performance e azioni pittoriche. Un’accelerata, un salto che nessun artista fino ad allora aveva osato intraprendere. Nei 18 anni di attività, Gutai oscilla con risultati altalenanti, tra vecchie soluzioni e salti prodigiosi, per concludere il suo percorso nel 1972, data di scioglimento ufficiale del gruppo e morte di Jiro Yoshihara.

ARC

I principali riferimenti per questo testo sono i seguenti libri:

Fabriano Fabbri, Lo zen e il Manga. Arte contemporanea giapponese, Bruno Mondadori, Milano, 2009

Umberto Eco, Opera Aperta, “Lo zen e l’occidente”, Bompiani, Milano 1967
Mario Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino, 1994

Suoni, aria e nebbie. Il flusso dell'invisibile

 



Visito Fluxus arte per tutti. Edizioni italiane collezione Luigi Benotto allestita nello Spazio degli Archivi al Museo del Novecento. Tra valigette, kit, poesia visiva, riviste, ampolle trovo una scacchiera di Takako Saito, una delle artiste delle quali preparavo un post per “Sono arrivate le ragazze”: voci di artiste che mi piacciono, che hanno realizzato opere memorabili e talvolta poco note fatte d’aria, suoni, elettricità, profumi, parole, pensieri, danza, movimenti, corpi e abiti.

Taccuino

Fluxus.[1] Verso la fine degli anni cinquanta, per opera di George Maciunas (1931-1978) (artista di origine lituana, trapiantato negli Stati Uniti, influenzato dalle attività musicali e performative di John Cage degli anni precedenti), Fluxus riporta in superficie il Dadaismo attraverso l’esortazione all’utilizzo straniato di oggetti del quotidiano per indurre ad attività inconsuete; oggetti che i fluxartisti raccolgono in apposite valigette, Fluxbox o Fluxkit, corredate di istruzioni per l’uso, abbinate ad una serie di gesti e azioni suggerite e magari arricchite dall’intervento personalizzato del fruitore. Ciò che caratterizza il gruppo è una totale apertura al linguaggio artistico, a tutti i materiali del mondo e a tutti i flussi dell’esistenza, un uso degli oggetti e del linguaggio del quotidiano inedita, straniante, pari al Koan, il non senso dell’esistenza di fronte al quale il maestro zen pone il discepolo, una sorta di “indovinello senza soluzione dal quale dovrà scaturire la sconfitta dell’intelligenza e l’illuminazione” [2]. 

Il movimento internazionale Fluxus si afferma nel 1961, vi aderiscono artisti provenienti da tutto il mondo. Aderiranno tra i tantissimi Atsuko Tanaka e Yoko Ono, (delle quali parlerò a parte) il gruppo Gutai, Takako Saito, Mieko Shiomi, Fujiko Nakaja protagoniste di questo post. Le sue radici sono nel Dadaismo e in Duchamp, nel saper promuove la realtà, dove una commistione tra i linguaggi possa originare una fluidità vitale, opere nelle quali vento, aria, acqua sono centrali sebbene la capacità di alcuni oggetti di generare suoni assumerà una particolare importanza. Il ruolo centrale di Maciunas come organizzatore, teorico, editore è riconosciuto dagli altri artisti che però mantengono tutti una grande indipendenza e relazioni reciproche molto fluide, non a caso alla morte di Maciunas, nel 1978, di fatto Fluxus si scioglie.

Takako Saito (1929) nonostante la scelta degli scacchi, non sembra nutrire una forte propensione per il gioco in sé, lo fa piuttosto slittare in secondo piano rispetto all’interesse principale di solleticare i sensi e la mente, dirottare l’attenzione sulla natura dei singoli pezzi. Al posto di re, regine, cavalli e pedoni l’artista realizza involucri che volta per volta contengono diversi oggetti per altrettanti suoni come in Sound Chess (1964-1975) agitando i cubetti questi producono gradevoli rumorini; in Smell Chess ad esempio allude all’olfatto così come in Spice Chess che ne rappresenta una variante; Grinder Chess (1964) (esposta in questa mostra) piccole molatrici di diversa grandezza e di diversa consistenza tattile, occupano la scacchiera come tanti piccoli soldatini. Seppure orientata quasi esclusivamente verso il filone scacchiera - ereditato da Marcel Duchamp, grande appassionato di scacchi- ciò che risalta nelle varie proposte è la piena aderenza alla lezione Fluxus di creare opere ironiche, divertenti e soprattutto da “usare”, capaci di fungere da stimolo sensoriale per il pubblico, il quale volendo li poteva ricevere comodamente a casa tramite un servizio di vendita per corrispondenza.

Tra le altre c’è Mieko Shiomi (1938), di Fluxus la più prossima con Air Event (1964) ai Corpi d’aria (1959-60) di Manzoni, che però, ai fiati d’artista oppone quelli dei partecipanti invitati a soffiare aria in appositi palloncini, in conformità all’idea d’interazione Fluxus; non mancano le immancabili istruzioni per l’uso: <<Fai un lungo respiro, riempi d’aria un palloncino di gomma e scrivi sopra il tuo nome (questo è il tuo polmone). Puoi comprare all’asta i polmoni di altri performer>> [3] Shiomi è una musicista, nel 1961 fa parte del gruppo Ongaku il cui desiderio è riorientare la propria attenzione verso l’improvvisazione e riscoprire il significato della musica. Il suono è parte di molte opere di Shiomi come Water Music, che sebbene creato nel 1964, poco prima che andasse a New York, è stato eseguito per la prima volta durante la sua permanenza in città. Questo lavoro esemplifica chiaramente l’attenzione dell’artista sulla partecipazione attiva del pubblico, la consapevolezza delle azioni quotidiane come potenziali performance. Le istruzioni di base recitano: 1. Dare all’acqua una forma ferma. 2. Lascia che l’acqua perda la sua forma immobile. Le ampolle chiedono di ascoltare il suono prodotto dall’acqua a seconda dei recipienti che la contengono.

E’ nota come <<scultrice della nebbia>> Fujiko Nakaja (1933) artista dell’elemento concreto benché impalpabile realizza il suo primo intervento di nebbia per il Pepsi Pavilon, Expo ’70 a Osaka. Utilizza dispositivi di nebulizzazione e acqua brevettati sia nell’hardware che nel flusso d’aria; negli anni a seguire li riproporrà in spazi aperti e chiusi, anche in collaborazione con altri artisti. Le sue installazioni smaterializzate immergono il pubblico in una nebbia artificiale, nuvole che avvolgono e disorientano, come passeggiare tra banchi di nebbia perdendo l’orientamento. Ancora una volta natura e artificio si uniscono per mezzo della tecnologia. Non solo corpi cyborg, esseri Koden ma natura artificiale e direzionata.

ARC


I principali riferimenti per questo testo sono i seguenti libri:

Fabriano Fabbri, Lo zen e il Manga. Arte contemporanea giapponese, Bruno Mondadori, Milano, 2009

Umberto Eco, Opera Aperta, “Lo zen e l’occidente”, Bompiani, Milano 1967

Lo zen in un pompelmo

 




<<Dopo esserci bloccati la mente, liberandoci dalle percezioni visive, acustiche e cinetiche cosa uscirà da noi? I miei eventi sono essenzialmente fondati sulle domande>> [1] 

Yoko Ono (1933) è un'artista concettuale in piena sintonia Fluxus, movimento a cui aderisce confezionando, almeno all’inizio, più che oggetti frasi, flash del linguaggio, preparazioni a portata di mano. Progettato a partire dal 1962,  Grapefruit. Istruzioni per l’arte e per la vita [2] racchiude il Yoko Ono flusso . Sfogliandolo si accede ad una miriade di performance, di atti anomali da eseguire volendo e avendone il coraggio, in ogni luogo, in ogni momento. E’ suddiviso in nove capitoli non necessari poiché è da subito evidente l’approccio di Yoko Ono con il tutto attraverso l’abbattimento delle barriere spazio-temporali, la copertura capillare del pensiero e della comunicazione. Essere connessi tutti con tutto: <<Ci sono mille soli che sorgono ogni giorno. Noi ne vediamo uno solo a causa della nostra fissazione per il pensiero monistico>>. [3] Ogni capitolo è dedicato ad una forma d’arte: musica, pittura, poesia, film, danza, architettura e altri frammenti sparsi, ai testi si accompagnano molti disegni, tra i quali ingegnose linee (di manzoniana memoria) da pensare con la mente: alcune soffrono, altre sono puzzolenti, un’altra una volta era un cerchio. Le istruzioni di Yoko Ono si polarizzano su due estremi del possibile e dell’impossibile, si avvalgono punti di vista insoliti, inaspettati, sono frequenti le istruzioni che riferiscono a l’idea di registrare su supporti mediatici, alcune attivano in noi stupore, altre fastidio, sconcerto conservando il sapore straniante del Koan.[4]

Alcune istruzioni Grapefruit:

·     Chiedi a 500 persone di pensare allo stesso numero di telefono contemporaneamente per un minuto in un momento prestabilito.

·    Chiedi a tutti in città di pensare la parola “sì” nello stesso momento per 30 secondi.

   · Immagina che il tuo corpo espanda rapidamente su tutto il mondo come tessuto sottile.

   · Porta avanti tutti gli orologi del mondo di due secondi senza farlo sapere a nessuno.

   ·  Sussurra. Chiedi al vento di portarlo alla fine del mondo.

·     Invia messaggi olfattivi col vento.

·   Spedisci un vento intorno al mondo finché non diventi una brezza molto delicata.

·      Prescrivi pillole per attraversare il muro e far tornare solo i capelli

·   Usa il tuo sangue per dipingere. Continua a dipingere, a) continua dipingere finché svieni. b) Continua a dipingere finché muori.

      · Fa una chiave. Trova la serratura corrispondente. Se la trovi, brucia la casa a cui è attaccata.

·    Colpisci il muro con la testa.

·     Gira tutta la città con una carrozzina vuota.

        ·  Quando intrattieni gli ospiti, tira fuori la biancheria del giorno e spiega loro di ciascun capo. Come e quando si è sporcato e perché ecc.

·    Disegna una mappa per perderti.

·    Registra il suono della stanza che respira

· Metti su nastro tua moglie che si pettina ogni giorno. Conservalo. Seppelliscilo con lei quando muore.

·  Ascolta il suono dell’acqua sotterranea.

·  Ascolta il cuore che batte.

·      Metti su nastro le voci dei pesci in una notte di luna piena.

 


La prima mostra ufficiale è del 1961, a New York sotto il patronato dell’amico Maciunas e Fluxus. Un gioco di ombre del mondo rovesciato Shadow Painting, un pezzo di realtà che chiede attenzione dietro uno schermo trasparente Painting to Let The Evening Ligh go Through. Ma la performance più nota di Yoko Ono rimane Cut Piece (1964), presentata il 21 marzo 1965 al Carnegie Recital Hall, New York. L’artista impone la sua nudità per mezzo dell’azione del pubblico: gli spettatori sono invitati a impugnare un paio di forbici e tagliare i suoi vestiti. Spogliati di ogni ipocrita falsità molti rappresentanti del genere umano tirano fuori il peggio delle loro energie negative e il meglio delle positive. In balia di estranei, Ono anticipa azioni a cui siamo oramai abituati, divenute una costante della performance di molte artiste. Cut Piece non è però la prima performance di Yoko Ono, l’esordio è con Lighting Piece nel 1962, anno di scrittura e composizione di Grapefruit. Con questa prima azione stabilisce inequivocabilmente un nesso tra le istruzioni contenute nel libro, non ancora edito, e le traduzione in azione.  Prima o poi, le istruzioni del libro pompelmo avrebbero varcato la soglia della dimensione immateriale della mente per incarnarsi in fisiche performance, di oggetti agiti. L’artista siede davanti ad un pianoforte, trascura del tutto lo strumento e lascia che il fulcro dell’azione non sia l’esecuzione di un musica, ma un fiammifero lasciato sullo sgabello ad esaurirsi nella sua elementare combustione. In Piece Bag 1964, Sogetsu Art Center di Tokio, i visitatori sono invitati ad entrare all’interno di un involucro e fare ciò che vogliono: dormire, fare una conferenza stampa, come in realtà è accaduto. Alla Lisson Gallery di Londra nel 1966 espone Mend Piece un insieme di cocci su un piedistallo. Nessun significato simbolico, surreale, metafisico, accompagnati da tubetto di colla, ago e filo sono in attesa di una riparazione. Le correlazioni con le istruzioni del pompelmo sono continue e corrono in due direzioni. Oggetto per la mente. Opera da apprezzare una volta frantumata. Corredato a una delle istruzioni di Grapefruit è anche Water Piece che prevede l’annaffiatura di una spugnetta con un contagocce, da ripetere ogni giorno come gesto tanto inutile quanto distensivo, più o meno come curare la ghiaia del giardino zen. Il tutto poggia su un cubo trasparente, come quello di Saburo Murakami, “Aria” 1956.

Grapefruit è una fonte inesauribile di azioni, oggetti agiti, performance. Una serie di macchine pensate e realizzate provengono direttamente dall’incarnazione degli haiku del pompelmo, ad esempio la Macchina piangente lacrimosa e lagnosa, la Macchina volatilizzante un dispositivo per far sparire gli oggetti inseriti al suo interno, la Macchina del pericolo in cui si entra e non si sa in che condizioni si esce. La Sky machine emette un cartoncino con su scritto cielo e Air dispenser al prezzo di 25cent elargisce una capsula di aria. Duchamp, Gutai e Manzoni aleggiano attraverso il pensiero zen. Le macchine evocano tutte il mondo infantile dei distributori di caramelle, dei piccoli desideri, sono macchine che invitano a rivolgere al mondo uno sguardo puro, uno slancio ludico verso elementi naturali e artificiali.

 Taccuino

Lo zen [5] ha come finalità primaria impedire qualsiasi forma di calcificazione del pensiero e dei modi di vivere sclerotizzati, che invece di rimandare a qualche entità ultraterrena con potere di governare il creato, si rivolge alle cose di questa terra spostando su di loro il valore di una sacralità incarnata. La pratica è un resettaggio mentale, azzeramento di nozioni e saperi, al fine di liberare mente e corpo dai condizionamenti che incrostano individuo e collettività. La sacralità degli eventi mondani si rivela nella sconfinata frammentazione della quotidianità, sia essa nobile o abietta. La realtà è colta nella sua immediatezza che ha nel Satori improvvisa illuminazione di realtà che si rivela nella sua gratificante pienezza, una delle sue finalità. Una deflagrazione delle cose stesse liberate dalla limitatezza di una visione parziale e menomata dalla pochezza degli schemi abitudinari che può prendere la forma di un ricordo riaffiorato inaspettatamente o di una intuizione folgorante. Tra gli espedienti per il raggiungimento del Satori lo zen ricorre all’esercizio del Koan, paradossi, rompicapi, indovinelli che richiedono soluzioni esterne ad ogni logica plausibile, acrobazie mentali, impossibili da superare con i parametri della normalità. Ne viene una dedizione agli aspetti minimi della vita, quegli aspetti mondani che quasi mai attraggono l’attenzione.

ARC


I riferimenti principali per questo testo sono i seguenti libri:

Fabriano Fabbri, Lo zen e il Manga. Arte contemporanea giapponese, Bruno Mondadori, Milano,  2009

Grapefruit. Istruzioni per l’arte e per la vita, Mondadori Milano, 2005

Umberto Eco, Opera Aperta “Lo zen e l’occidente”, Bompiani, Milano, 1967