domenica 30 aprile 2023

Il corpo artificiale

 


Sophie Taeuber-Arp (1889-1943) è una artista, designer e danzatrice, ma è raro che ci si riferisca a lei come ballerina. Di Sophie si conoscono soprattutto dipinti, collage, ricami e marionette. Come ballerina è pressoché sconosciuta, sebbene c’è stato un periodo della sua vita nel quale ha pensato seriamente di abbandonare le arti figurative per dedicarsi completamente alla danza. Non è durato molto, ma è stato un periodo molto significativo per la sua formazione. Il suo percorso di studi inizia in Svizzera dove è nata. Dal 1910 frequenta prima la scuola di disegno per l’industria e le arti applicate a San Gallo, in seguito l’atelier sperimentale per l’arte applicata fondato nel 1902 da Hermann Obrist e Wilhelm von Debschitz a Monaco, infine si iscrive per due semestri alla scuola di arti applicate di Amburgo, per tornare nel 1913 nell’atelier di Debschitz, a Monaco.

Nel 1914, a Zurigo, ha la folgorazione per la danza astratta. In verità la praticherà per pochi anni, tuttavia inciderà profondamente e in maniera duratura sulle sue creazioni artistiche. Grazie all’amicizia che la lega a Mary Wigmann, tra le più note allieve di Rudolf von Laban, coreografo, teorico “della danza libera” ovvero libera dalle costrizioni del balletto classico e dai legami con la musica, Sophie entra a far parte della compagnia per collaborarvi attivamente.
Laban aveva fondato una propria scuola nel 1913, questa si teneva in inverno a Monaco di Baviera, in estate a Monte Verità sopra Ascona. Allo scoppio della Grande Guerra la ricerca artistica della compagnia di Laban si intreccia con l’opera degli artisti dadaisti. In questa circostanza Sophie conosce Hans “Jean” Arp. Le prime esibizioni in danze primitiveggianti nei cabaret Dada iniziano presto e rappresentano un tramite per inventarsi un corpo e gesti differenti, indossa maschere, che non solo trasformano il volto, ma modificano la percezione di chi danza e di chi guarda. Il corpo perde di umanizzazione, il che conduce ad un’astrazione e a una reinvenzione di sé e della propria presenza scenica. Nell’intollerante Zurigo, durante le serate dadaiste si nasconde dietro lo pseudonimo di G. Thauber, l’uso della maschera avvantaggia l’anonimato. Negli anni successivi assieme ad Arp, Marcel Janco e Fritz Baumann fonda il gruppo “Dan Neu Leben” (la nuova vita) con l’obiettivo di integrare l’arte astratta nella vita quotidiana. Il gruppo continua ad organizzare serate dadaiste e feste in maschera, tuttavia ci è nota solo un’altra performance coreografata da Sophie Taeuber, quella dell’8° serata dada alla Saal zur Kaufleuten (sala dei commercianti) del 9 aprile 1919, Noir Kakadu. Le scenografie sono realizzate su strisce di carta di due metri da Sophie e Jean Arp.
Nel 1921 lei e Arp fanno un viaggio in Italia e in seguito si sposano. Nel 1926 si trasferiscono a Strasburgo, qui insieme a Teo Van Doesburg, lavorano alla ristrutturazione degli interni del Cafè de l’Aubette, un grande centro di divertimenti sulla Place Kléber a Strasburgo, restaurato nel 2006. Il soffitto è progettato da Sophie con i medesime strutture a griglia dei suoi lavori su tessuto o su carta. Nei tardi anni venti vivono a Parigi. Nel 1937 fonda la rivista Plastique, pubblicata per soli due anni. Nel 1940 lascia Parigi, occupata dai nazisti. Si rifugiano dapprima a Nérac, da Gabrielle Picabia, poi in Savoia da Peggy Guggenheim e infine a Grasse, nel sud della Francia. Nel 1942 si traferisce di nuovo a Zurigo. A questo periodo risalgono le opere che combinano forme organiche e forme artificiali. Con l’aiuto di Peggy Guggenheim e il Museum of Modern Art di New York progettano di traferirsi negli Stati Uniti. Nel gennaio del 1943, un tragico incidente, dovuto alle esalazioni di monossido di carbonio di una stufa malfunzionante, ne causa la morte.

Taccuino

Bambole e Automi
Anche chi non ha una grande conoscenza di danza ha sicuramente sentito nominare il balletto Coppélia 1870, ispirato al primo racconto dei Notturni 1816 di E.T.A. Hoffmann, L’uomo della sabbia, racconto che indaga l’immaginario romantico dell’automa. La protagonista si trasforma in bambola caricata a molla, si esibisce perciò in movimenti meccanici. Questo aspetto della costruzione di un altro corpo diverso da quello naturale è uno degli interrogativi su cui si sono misurati molti artisti. La disumanizzazione, la meccanicità, la reinvenzione della fisicità attraverso maschere, costumi che trasformano gli esseri viventi in marionette animate dall’interno con movimenti meccanico/robotici si trova al centro delle attività speculativa e operativa di tutti i movimenti dell’avanguardia teatrale dai primi anni del XX secolo.
Spesso in competizione tra loro realizzano teatrini e marionette danzanti, maschere e fantocci perché attraverso la danza si trovassero nuovi contenuti, nuove forze. La creatività e la competizione, a volte anche l’invidia, ci hanno lasciato risultati creativi straordinari. Un esempio fra tutti: i costumi, sicuramente ingombranti, di Fortunato Depero per Le Chant du Rossignol, 1916-17 tratto da una fiaba di Andersen, per i Ballets Russes di Sergei Djagilev saranno sostituiti nel 1925, da costumi più morbidi, meno ingombranti e sicuramente più “ballabili” realizzati da Henry Matisse con una nuova coreografia di Balanchine. Come per Coppélia anche in questo caso è presente l’elemento meccanico, il corpo robotico, lo scontro tra natura e artificio. Qui si fronteggiano un usignolo naturale e uno meccanico, l’automa, che l’autore sostiene essere più performante di quello in carne e piume.

 


E’ difficile immaginare epoche nelle quali non si fotografasse ogni momento della vita, ogni esperienza, anche la più banale. Eppure queste epoche sono esistite e dei talenti che le hanno attraversate a volte è rimasto qualche sfocato scatto fotografico. L'unica prova visiva dell'attività di Sophie Taeuber-Arp come danzatrice è rappresentata da una delle pochissime fotografie esistenti della prima performance Dada. Non sappiamo se sia stata scattata al Cabaret Voltaire nel 1916 o alla Galerie Dada nel 1917, in ogni caso, rappresenta una parte importante dell'attività Dada e dell'avvento, negli anni dieci, della danza astratta. Parallelamente al tentativo di Dada di rompere con il linguaggio consolidato e le forme d'arte di un sistema sociale imperfetto, Sophie include all’interno delle sue performance movimenti intuitivi e astratti: come nella poesia rumorosa, la danza evoca idiozie per contrastare l'ordine stabilito. E’ plausibile che il costume avesse parti colorate in blu, rosso, bianco e marrone, oltre che in argento e oro, colori che ritroviamo nelle marionette del Re Cervo e in disegni e bozzetti. Il costume non è realizzato perché accompagni movimenti fluidi, piuttosto impone gesti robotici, le forme geometriche che costituiscono la parte superiore costringono le spalle e i movimenti delle braccia sono rigidi, sgraziati, al contrario la parte inferiore del corpo ha una maggiore libertà e le gambe posso muoversi con grande dinamicità. Frenato e reso anonimo dal costume, il corpo di Sophie appare fratturato e zoppicante, come il mondo spezzato che la circonda.




C’è un’altra fotografia importante per questo racconto. E’ del 1918 e ritrae Sophie e Jean a mezzo busto: lui guarda in camera, lei ha lo sguardo distratto, alle loro spalle appese alla parete le marionette del Re cervo, realizzate da Sophie per il suo più originale contributo al movimento dadaista. Dopo l’esperienza con la danza, nel 1918 riprende a dedicarsi sempre di più alle arti figurative. Lea Vergine nel libro dedicato alle artiste dell’avanguardia le definisce in questi termini: “Queste possono considerarsi le prime marionette moderne, fatti con parti meccaniche che, appoggiate su semplici elementi di base, lasciano vedere il meccanismo del movimento, collegando così la maniera dadaisti a quella astratto-concreta.”[1] 

Il Re cervo è tratto da una famosa fiaba teatrale tragicomica di Carlo Gozzi, del 1762. La versione assolutamente inconsueta, aggiornata in chiave dadaista, rappresenta il rapporto professionale e la successiva separazione tra Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, due figure fondamentali del pensiero e della psicanalisi del XX secolo. Una satira nella quale appaiono pappagalli, cervi, robot, personaggi che riferiscono direttamente ai due protagonisti. Viene rappresentato per la prima volta l’11 settembre 1918 al Teatro delle marionette di Zurigo di Alfred Altherr, architetto e direttore della Scuola di Arti Applicate di Zurigo.

 



Taccuino
Marionette
Nei primi decenni del XX secolo la collaborazione tra arti visive, teatro e danza rappresenta un momento fertile ricco di idee e intuizioni. Tra gli artisti futuristi, dadaisti, costruttivisti molti collaborano con coreografi, compagnie teatrali, alcuni creano coreografie, progettano costumi e oggetti di scena, utilizzano la danza per dare corpo a polemiche e scandali, accentuando la propria presenza attraverso la presenza del corpo naturale o artificiale, da cui deriva una predilezione per mascherature corporali e costumi-marionetta.
La marionetta è stata considerata dalle avanguardie europee come la forma più adatta a esprime il nuovo linguaggio artistico scaturito dalla crisi della rappresentazione teatrale e delle arti visive, segno di quella più generale crisi a cui gli stessi movimenti di avanguardia cercarono di rispondere all’inizio del XX secolo. Risorge nei temi, nei concetti, nei simboli di questi anni anche tutta la tradizione della commedia dell’arte italiana, che rimanipolata, adattata diviene occasione di critica sociale, culturale, politica. Nel corpo naturale dei ballerini o nel corpo robotico, nei fantocci o nelle marionette molte artiste cercano nuovi spazi di espressione.

ARC

I principali riferimenti per questo testo sono i seguenti libri:

Lea Vergine, L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940: pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche, Il Saggiatore, 2005

AA. VV. Automi, marionette e ballerine nel teatro di avanguardia: Depero, Taeuber-Arp, Exter, Schlemmer, Morach, Schmidt, Nikolais, Cunningham, Skira editore Milano, 2000

sito:


[1] Cit., Lea Vergine, L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940: pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche, Il Saggiatore, 2005, p 240.

martedì 4 aprile 2023

Talismani

 



Patricia Lee Smith, conosciuta come Patti, è nata a Chicago nel 1946. Non a tutti è noto che ha intrapreso il suo viaggio nell’arte non iniziando dalla musica, per cui è famosa, ma attraverso la poesia e l’arte visiva. Ha sviluppato una coscienza estetica piuttosto giovane. “(…) Un giorno ho trovato una pila di riviste Harper's Bazaar e Vogue legate con uno spago in un mucchio di rifiuti. Era il 1954 circa. (…) Sono stata particolarmente attratta dalle fotografie di Irving Penn e ho adorato le foto di sua moglie, la modella Lisa Fonssagrives. Mentre frequentavo la scuola elementare, passavo molto tempo nella biblioteca locale. Cercando cose relative a Lewis Carroll, ho trovato un vecchio libro illustrato con i suoi ritratti di bambini. (…) Guardando le fotografie di Carroll, mi sono chiesta: "Perché non possono fotografarci in quel modo?" Tramite Carroll ho scoperto anche Julia Margaret Cameron e sono rimasta molto colpita dalla fotografia vittoriana.”[1].

Nel 1967 si è trasferita a New York. Ha lavorato in varie librerie, frequentato artisti e poeti. Sono gli anni di formazione e sperimentazione, gli anni dell'incontro con Robert Mapplethorpe.
Andy Brown, della libreria Gotham Book Mart, vendeva le sue illustrazioni su carta, generosamente disposte vicino al registratore di cassa. A Andy piacevano i suoi disegni e nel 1973 le organizza la prima mostra.  In seguito Robert Miller, dell'omonima galleria di New York, dopo aver visto la mostra al Gotham Book Mart, le offre una mostra. Passarono alcuni anni prima che la cosa si concretizzasse, ma Miller rimase in contatto costante con lei, anche quando nel 1977 ebbe un grave incidente. Fece la mostra, ma subito dopo diede una svolta inaspettata alla sua vita. "Nel 1977 ho avuto un grave incidente e quando mi stavo riprendendo Robert Miller è venuto a trovarmi e mi ha portato dei libri sul lavoro di Lee Krasner e Joan Mitchell. Era un grande sostenitore delle donne artiste. Aveva un entusiasmo così straordinario. Alla fine mi convinse a mostrare i miei disegni. Gli ho chiesto se io e Robert Mapplethorpe potessimo esibirci insieme. Abbiamo fatto una bellissima mostra e da allora sono stata con la galleria. Mi sono trasferita a Detroit alla fine del 1979 e mi sono lasciata tutto alle spalle. Ho sposato Fred e ho avuto due figli e ho trascorso la maggior parte dei successivi sedici anni concentrandomi sulla mia famiglia, studiando storia dell'arte e scrivendo. Robert Miller non si è mai arreso con me e quando sono tornata a New York nel 1996 mi ha incoraggiato a produrre nuovi lavori." "Quando mio marito è morto alla fine del 1994, ero emotivamente esausta. Non potevo fare altro che prendermi cura dei miei figli. Non potevo lavorare, studiare o creare. Avevo la nostra vecchia macchina fotografica Polaroid, una Land 100, e mi è venuto in mente che avevo abbastanza energia per scattare una fotografia e che potevo vederla immediatamente. Così ho iniziato a scattare Polaroid di oggetti nella nostra camera da letto, dove la luce si diffondeva attraverso la zanzariera drappeggiata sulla nostra finestra. L'immediatezza del processo è stata gratificante. La prima buona foto che ho scattato è stata delle pantofole di Nureyev (Nureyev’s Slippers, Michigan, 1995) e ho provato un immediato senso di realizzazione.” [2] Da allora espone ancora con la Robert Miller Gallery.



La morte è uno dei soggetti preferiti di Patty Smith. Evoca spettri senza alcuna atmosfera inquietante, al contrario, nelle sue polaroid emerge tutto l’amore verso coloro che hanno contribuito a costruire la sua vita artistica e, ancora lo fanno. “Da bambina avevo un grande rispetto per l'oggetto inanimato. C'era così tanta perdita intorno alla mia famiglia. Entrambe le mie nonne sono morte giovani. Quindi un mandolino o un copriletto di pizzo che apparteneva a loro sembrava molto prezioso. I loro oggetti erano l'unico modo in cui potevo evocarli. Immagino che quel senso delle cose si estendesse ai poeti e agli scrittori che amavo. Potevo accedere a Rimbaud attraverso il suo atlante, la sua sciarpa, la sua forchetta e il suo cucchiaio. Ho perso mio marito, mio fratello, Robert, il mio giovane pianista e i miei genitori. Quindi ho un rapporto forte con i morti, anche felice. Traggo piacere dall'avere le loro cose e talvolta fotografarle. Sono così da quando ero giovane. È quello che sono.”[3] Tutti gli scatti paiono inseguire ancora oggi lo spirito pioneristico del dilettante vittoriano, quando agli albori della fotografia contava l’esplorazione, l’unicità, i ritratti dei poeti, la testimonianza, il viaggio, la reliquia dell'opera d'arte, le sfocature e gli effetti pittorici. E’ il pellegrinaggio il tema principale del lavoro. Il viaggio nei luoghi in cui hanno vissuto, scritto o dove sono sepolti gli artisti che l'hanno ispirata. Il continuo ritorno su questi luoghi è l’attività che ha iniziato a praticare dopo la morte del marito Fred “Sonic” Smith. Quello che svolge Patti è un pellegrinaggio sentimentale, alla ricerca dei luoghi, ma soprattutto di oggetti-talismano, appartenuti a donne e uomini che hanno lasciato una traccia nella bambina e ragazza che è stata e nella donna che è oggi. Ha fotografato il letto di Keats, la maschera della vita di Blake, gli utensili di Rimbaud, la bandana di William Burroughs. E' il suo modo di fare loro i ritratti. 




Per i ritratti-talismano Patti Smith utilizza generalmente una fotocamera Polaroid Land 250. Come molti fotografi considerati "non professionisti", negli anni non ha sentito il bisogno di migliorare la strumentazione, al contrario, la sua polaroid 250 è parte fondamentale del progetto, è anch'essa un oggetto talismano. Di solito esce con un pacchetto da dieci scatti, quindi deve riflettere attentamente su ogni immagine. Ha sviluppato un approccio economico dello scatto fotografico sin dai tempi che sperimentava arte e vita con Robert Mapplethorpe, quando entrambi avevano pochi soldi e la pellicola costava molto, ogni ripresa doveva essere buona. Ora, nonostante non ci siano più i problemi economici della giovinezza, c'è pochissima pellicola Polaroid in circolazione, quindi, non è possibile sprecarla. La polaroid le permette di ottenere immagini sempre uniche. Sceglie il bianco e nero, presenta quello che sa sui principi della luce e della composizione, immagini piatte per scelta. Non è interessata alla profondità fisica nelle foto. Le piace immaginarsi simile al dilettante del diciannovesimo secolo. Quell'impulso iniziale di bambina, il sogno di realizzare fotografie come Julia Margaret Cameron si è compiuto. Ogni immagine, ogni polaroid è un individuo, racconta una piccola storia. La genesi dell'impulso creativo non è sempre rintracciabile, è però immediato e indelebile. Questo è il bello di una Polaroid. Guardando ognuna di loro è possibile ricordare com'era il momento dell'inizio. Ogni fotografia è come una pagine di diario della sua vita. Le pantofole di Robert Mapplethorpe “Anche Robert era molto talismanico. Amava le sue pantofole di velluto nero con le sue iniziali ricamate con fili d'oro brunito. Ero molto invidiosa di loro e lui mi prendeva in giro, dicendo: <<So che vuoi le mie pantofole>>. E credo di averlo fatto. Quando è morto, mi sono disperata per le sue cose. Non cose di valore, solo piccole cose che parlavano di lui, di cui le sue pantofole erano emblema. La fotografa Lynn Davis, che era molto vicina a Robert, è stata così gentile da darmele. Le ho fotografate per lei in modo che anche lei potesse averne un po’.” La tazzina da caffè di suo padre Grant: “E' una tazzina da caffè in fine porcellana realizzata per il centenario di Charles Dickens che ho comprato per mio padre a casa di Dickens a Londra. Mio padre lo adorava e a nessuno era permesso berne. Nessuno ha toccato la tazza di mio padre. Quando mio padre è morto, mia madre me l'ha regalata, ma io non ho mai potuto usarla. È in una teca di vetro speciale, e anche se spesso la tiro fuori e la guardo, non ne berrei mai.” La tomba di Susan Sontag: “Ho scattato una foto della tomba di Susan Sontag per Annie Leibovitz il giorno dopo il funerale di Susan. Faceva molto freddo e la sua tomba era ricoperta di petali bianchi. Annie ha pianto profondamente la perdita di Susan, e quando guardo la foto penso a entrambe.”[4]




Nel modo in cui sceglie gli oggetti appartenuti a poeti, scrittori o familiari e amici, non c'è alcuna differenza, sono tutti oggetti talismano, cambia la relazione che Patti attiva tra la polaroid, piccola custode, e i ricordi. Guarda agli oggetti per il loro valore sentimentale, simbolico. Sono spesso banali, ma hanno avuto un contatto fisico prolungato con la persona che li ha posseduti: il letto di Virginia Woolf a Monk House è lo spirito di Woolf, come la polaroid del suo bastone da passeggio. Delle pantofole di Robert Mapplethorpe realizza due scatti: uno per sé e uno per Lynn Davis, "in modo che anche lei potesse averne un po’". Lo stesso vale per la sedia di Roberto Bolaño“Mi esibivo in Spagna e sono andata a Blanes, dove Roberto Bolaño visse e morì. Volevo fotografare qualcosa che parlasse di lui. Mi è stata data l'opportunità di fotografare la sua sedia. Una sedia insignificante ma era la sedia che amava, su cui sedeva per ore e ore scrivendo il suo capolavoro 2666.”[5] "Avevo scattato quattro foto della sedia, una sedia semplice, che per superstizione si portava dietro da una casa all'altra. Era la sedia su cui si sedeva per scrivere." [6]

Taccuino

Anche una fotografa professionista, amica di Patti Smith, come Annie Leibovitz ha utilizzato l’idea di pellegrinaggio associato ai propri artisti e scrittori preferiti. Centro del lavoro, realizzato tra l’aprile del 2009 e il maggio 2011, dal titolo Pilgrimage, è una raccolta di foto di oggetti appartenuti a varie celebrità che hanno influito in diversa misura sulla sua formazione.

ARC



I principali riferimenti per questo testo sono i seguenti libri:

Susan Lubowsky Talbot (a cura di) Patti Smith Camera Solo, Catalogo, Wadsworth Atheneum Museum Art, Hartford, Connecticut, Yale University Press, New Haven, 2012

Patti Smith, Just Kids, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2010

Patti Smith, M Train, Bompiani, Milano, 2016



[1] Le parole di Patti Smith sono tratte dell’intervista di Susan Lubowsky Talbot svoltasi in occasione della mostra al Wadsworth Atheneum Museum Art di Hartford, Connecticut 2012 in Patti Smith Camera Solo, a cura di Susan Lubowsky Talbot, Catalogo, Wadsworth Atheneum Museum Art, Hartford, Connecticut, Yale University Press, New Haven, 2012, p.9
[2] p.10
[3] p.11
[4] p.15
[5] p.15
[6] Patti Smith, M Train, Bompiani, Milano, 2016, p.36