sabato 16 dicembre 2023
martedì 9 maggio 2023
Il film mai fatto
Alexandra Exter (1882-1949) nasce a Belostok (Polonia) e frequenta come
libera auditrice l’istituto d’arte di Kiev. Nel 1907 frequenta l’atelier del
ritrattista Charles Delval Parigi. Tra il 1908 e il 1914 viaggia spesso, vive a
Mosca, San Pietroburgo, Kiev e a Parigi ha l’occasione di avvicinarsi
all’ambiente cubista, conosce Picasso, Braque, Apollinaire e Jacobs, in Italia
conosce Soffici, Papini e Marinetti. Fra il 1915 e il 1917 è di nuovo in Russia
e sotto l’influenza di Tatlin e Malevic si avvicina al costruttivismo. Nel 1916
realizza gli affreschi per il vestibolo, il foyer, il sipario e le quinte del
boccascena per il Teatro da camera di Mosca di Aleksandr Tairov. Nello stesso
anno Tairov gli commissiona scenografie e costumi per Tamira il citaredo 1916, nel 1917 Salomé e nel 1921 Giulietta e Romeo. Nel 1923 lavora anche nel
campo della moda, per la rivista Atelier. Molto importante per gli sviluppi
futuri di alcune marionette, è la collaborazione, nel 1924, con il regista
Jakov Protazanov, per il quale progetta i costumi marziani per il film Aelita.
domenica 30 aprile 2023
Il corpo artificiale
Sophie Taeuber-Arp (1889-1943) è una artista, designer e danzatrice, ma è raro che ci si riferisca a lei come ballerina. Di Sophie si conoscono soprattutto dipinti, collage, ricami e marionette. Come ballerina è pressoché sconosciuta, sebbene c’è stato un periodo della sua vita nel quale ha pensato seriamente di abbandonare le arti figurative per dedicarsi completamente alla danza. Non è durato molto, ma è stato un periodo molto significativo per la sua formazione. Il suo percorso di studi inizia in Svizzera dove è nata. Dal 1910 frequenta prima la scuola di disegno per l’industria e le arti applicate a San Gallo, in seguito l’atelier sperimentale per l’arte applicata fondato nel 1902 da Hermann Obrist e Wilhelm von Debschitz a Monaco, infine si iscrive per due semestri alla scuola di arti applicate di Amburgo, per tornare nel 1913 nell’atelier di Debschitz, a Monaco.
Taccuino
E’ difficile immaginare epoche nelle quali non si
fotografasse ogni momento della vita, ogni esperienza, anche la più banale.
Eppure queste epoche sono esistite e dei talenti che le hanno attraversate a
volte è rimasto qualche sfocato scatto fotografico. L'unica prova visiva dell'attività di Sophie Taeuber-Arp come
danzatrice è rappresentata da una delle pochissime fotografie esistenti della
prima performance Dada. Non sappiamo se sia stata scattata al Cabaret Voltaire nel
1916 o alla Galerie Dada nel 1917, in ogni caso, rappresenta una parte
importante dell'attività Dada e dell'avvento, negli anni dieci, della danza
astratta. Parallelamente al tentativo di Dada di rompere con il linguaggio
consolidato e le forme d'arte di un sistema sociale imperfetto, Sophie include
all’interno delle sue performance movimenti intuitivi e astratti: come nella poesia
rumorosa, la danza evoca idiozie per contrastare l'ordine stabilito. E’
plausibile che il costume avesse parti colorate in blu, rosso, bianco e marrone,
oltre che in argento e oro, colori che ritroviamo nelle marionette del Re Cervo
e in disegni e bozzetti. Il costume non è realizzato perché accompagni
movimenti fluidi, piuttosto impone gesti robotici, le forme geometriche che
costituiscono la parte superiore costringono le spalle e i movimenti delle
braccia sono rigidi, sgraziati, al contrario la parte inferiore del corpo ha
una maggiore libertà e le gambe posso muoversi con grande dinamicità. Frenato e
reso anonimo dal costume, il corpo di Sophie appare fratturato e zoppicante,
come il mondo spezzato che la circonda.
C’è un’altra fotografia importante per questo racconto. E’ del 1918 e ritrae Sophie e Jean a mezzo busto: lui guarda in camera, lei ha lo sguardo distratto, alle loro spalle appese alla parete le marionette del Re cervo, realizzate da Sophie per il suo più originale contributo al movimento dadaista. Dopo l’esperienza con la danza, nel 1918 riprende a dedicarsi sempre di più alle arti figurative. Lea Vergine nel libro dedicato alle artiste dell’avanguardia le definisce in questi termini: “Queste possono considerarsi le prime marionette moderne, fatti con parti meccaniche che, appoggiate su semplici elementi di base, lasciano vedere il meccanismo del movimento, collegando così la maniera dadaisti a quella astratto-concreta.”[1]
[1] Cit.,
Lea Vergine, L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940: pittrici e scultrici nei
movimenti delle avanguardie storiche, Il Saggiatore, 2005, p 240.
martedì 4 aprile 2023
Talismani
Patricia Lee Smith, conosciuta come Patti, è nata a Chicago nel 1946. Non a tutti è noto che ha intrapreso il suo viaggio nell’arte non iniziando dalla musica, per cui è famosa, ma attraverso la poesia e l’arte visiva. Ha sviluppato una coscienza estetica piuttosto giovane. “(…) Un giorno ho trovato una pila di riviste Harper's Bazaar e Vogue legate con uno spago in un mucchio di rifiuti. Era il 1954 circa. (…) Sono stata particolarmente attratta dalle fotografie di Irving Penn e ho adorato le foto di sua moglie, la modella Lisa Fonssagrives. Mentre frequentavo la scuola elementare, passavo molto tempo nella biblioteca locale. Cercando cose relative a Lewis Carroll, ho trovato un vecchio libro illustrato con i suoi ritratti di bambini. (…) Guardando le fotografie di Carroll, mi sono chiesta: "Perché non possono fotografarci in quel modo?" Tramite Carroll ho scoperto anche Julia Margaret Cameron e sono rimasta molto colpita dalla fotografia vittoriana.”[1].
La morte è uno dei soggetti preferiti di Patty Smith. Evoca spettri senza alcuna atmosfera inquietante, al contrario, nelle sue polaroid emerge tutto l’amore verso coloro che hanno contribuito a costruire la sua vita artistica e, ancora lo fanno. “Da bambina avevo un grande rispetto per l'oggetto inanimato. C'era così tanta perdita intorno alla mia famiglia. Entrambe le mie nonne sono morte giovani. Quindi un mandolino o un copriletto di pizzo che apparteneva a loro sembrava molto prezioso. I loro oggetti erano l'unico modo in cui potevo evocarli. Immagino che quel senso delle cose si estendesse ai poeti e agli scrittori che amavo. Potevo accedere a Rimbaud attraverso il suo atlante, la sua sciarpa, la sua forchetta e il suo cucchiaio. Ho perso mio marito, mio fratello, Robert, il mio giovane pianista e i miei genitori. Quindi ho un rapporto forte con i morti, anche felice. Traggo piacere dall'avere le loro cose e talvolta fotografarle. Sono così da quando ero giovane. È quello che sono.”[3] Tutti gli scatti paiono inseguire ancora oggi lo spirito pioneristico del dilettante vittoriano, quando agli albori della fotografia contava l’esplorazione, l’unicità, i ritratti dei poeti, la testimonianza, il viaggio, la reliquia dell'opera d'arte, le sfocature e gli effetti pittorici. E’ il pellegrinaggio il tema principale del lavoro. Il viaggio nei luoghi in cui hanno vissuto, scritto o dove sono sepolti gli artisti che l'hanno ispirata. Il continuo ritorno su questi luoghi è l’attività che ha iniziato a praticare dopo la morte del marito Fred “Sonic” Smith. Quello che svolge Patti è un pellegrinaggio sentimentale, alla ricerca dei luoghi, ma soprattutto di oggetti-talismano, appartenuti a donne e uomini che hanno lasciato una traccia nella bambina e ragazza che è stata e nella donna che è oggi. Ha fotografato il letto di Keats, la maschera della vita di Blake, gli utensili di Rimbaud, la bandana di William Burroughs. E' il suo modo di fare loro i ritratti.
Per i ritratti-talismano Patti Smith utilizza generalmente una fotocamera Polaroid Land 250. Come molti fotografi considerati "non professionisti", negli anni non ha sentito il bisogno di migliorare la strumentazione, al contrario, la sua polaroid 250 è parte fondamentale del progetto, è anch'essa un oggetto talismano. Di solito esce con un pacchetto da dieci scatti, quindi deve riflettere attentamente su ogni immagine. Ha sviluppato un approccio economico dello scatto fotografico sin dai tempi che sperimentava arte e vita con Robert Mapplethorpe, quando entrambi avevano pochi soldi e la pellicola costava molto, ogni ripresa doveva essere buona. Ora, nonostante non ci siano più i problemi economici della giovinezza, c'è pochissima pellicola Polaroid in circolazione, quindi, non è possibile sprecarla. La polaroid le permette di ottenere immagini sempre uniche. Sceglie il bianco e nero, presenta quello che sa sui principi della luce e della composizione, immagini piatte per scelta. Non è interessata alla profondità fisica nelle foto. Le piace immaginarsi simile al dilettante del diciannovesimo secolo. Quell'impulso iniziale di bambina, il sogno di realizzare fotografie come Julia Margaret Cameron si è compiuto. Ogni immagine, ogni polaroid è un individuo, racconta una piccola storia. La genesi dell'impulso creativo non è sempre rintracciabile, è però immediato e indelebile. Questo è il bello di una Polaroid. Guardando ognuna di loro è possibile ricordare com'era il momento dell'inizio. Ogni fotografia è come una pagine di diario della sua vita. Le pantofole di Robert Mapplethorpe “Anche Robert era molto talismanico. Amava le sue pantofole di velluto nero con le sue iniziali ricamate con fili d'oro brunito. Ero molto invidiosa di loro e lui mi prendeva in giro, dicendo: <<So che vuoi le mie pantofole>>. E credo di averlo fatto. Quando è morto, mi sono disperata per le sue cose. Non cose di valore, solo piccole cose che parlavano di lui, di cui le sue pantofole erano emblema. La fotografa Lynn Davis, che era molto vicina a Robert, è stata così gentile da darmele. Le ho fotografate per lei in modo che anche lei potesse averne un po’.” La tazzina da caffè di suo padre Grant: “E' una tazzina da caffè in fine porcellana realizzata per il centenario di Charles Dickens che ho comprato per mio padre a casa di Dickens a Londra. Mio padre lo adorava e a nessuno era permesso berne. Nessuno ha toccato la tazza di mio padre. Quando mio padre è morto, mia madre me l'ha regalata, ma io non ho mai potuto usarla. È in una teca di vetro speciale, e anche se spesso la tiro fuori e la guardo, non ne berrei mai.” La tomba di Susan Sontag: “Ho scattato una foto della tomba di Susan Sontag per Annie Leibovitz il giorno dopo il funerale di Susan. Faceva molto freddo e la sua tomba era ricoperta di petali bianchi. Annie ha pianto profondamente la perdita di Susan, e quando guardo la foto penso a entrambe.”[4]
Taccuino
ARC
giovedì 30 marzo 2023
Claude allo specchio
Lucy Schwob scrittrice, filosofa drammaturga, che in tutta la sua vita non ha mai smesso di interrogarsi sulla propria identità e di agire su di essa, cambia nome. Detto così, non sembra un fatto eccezionale, lo aveva fatto già moltissime volte durante la sua attività di scrittrice e giornalista, aveva utilizzato pseudonimi ironici, rivoluzionari e scomodi come Claude Courlis, Alfred Douglas. Sembrerebbe un vezzo come un altro. Nata a Nantes come Lucy Schwob, il 25 ottobre 1894 da una famiglia di intellettuali, scrittori, giornalisti di origine ebraica, a partire dal 1917 si farà chiamare definitivamente Claude Cahun. E' il primo di tante sperimentazioni e mascheramenti. Claude è un nome che in francese è sospeso tra il genere maschile e quello femminile. Il cognome al contrario è un vero “affare di famiglia”, scegliendo Cahun rafforza le sue origini ebraiche acquisendo il cognome della nonna paterna. Cahun è una forma francese di Cohen, che indica un’evidente appartenenza alla classe rabbinica. Non è solo il nome ad essere oggetto di verifiche e dissimulazioni, il suo stesso corpo fisico è già fin dai vent'anni oggetto di sperimentazioni e mascheramenti attraverso l’utilizzo costante dell’autoritratto utilizzato fino agli ultimi anni di vita, nel 1954. Già attorno al 1919 si rade i capelli, le ciglia e le sopracciglia a zero, poi negli anni colorerà quegli stessi capelli di rosa, d'oro, d'argento. Si vestirà in modo stravagante o provocatoriamente maschile, ostenterà il monocolo che è un simbolo lesbico di primo Novecento, si colorerà le labbra e le guance come un clown, disegnerà sulla maglietta, assieme alla frase scherzosa I am in training don't kiss me, due cerchietti in corrispondenza dei seni. Attraverso un processo di costruzione di sé riassume origini e famiglia e, allo stesso tempo si dichiara come appartenente ad una specie di indefinito terzo sesso. L’idea del neutro è dichiarata nel messaggio appeso al piccolo letto dell’opera di oggetti cosiddetti "a funzionamento simbolico" Un Air de Famille esposta nel 1936, scrive:<<Maschile? Femminile? […] Neutro è il solo genere che fa per me>> [1].
A lungo ignorato, il lavoro fotografico di Claude Cahun ha beneficiato negli ultimi anni di un'accoglienza notevole. E’ rimasta pressoché sconosciuta fino al 1985, quando alcune sue immagini vengono incluse in due mostre sul Surrealismo: L'amour fou. Photography and Surrealism alla Corcoran Gallery of Art di Washington e Explosante Fixe Photographic and Surrealisme al Centre Georges Pompidou di Parigi. In Celibi, Rosalind Krauss ricorda che i recensori americani di L'Amour Fou: Surrealism and Photography pensarono fosse un uomo[4], e anche le più complete antologie dedicate alla partecipazione femminile al Surrealismo non la considerarono affatto. Nel 1992, François Leperlier pubblica Claude Cahun, L'écart et la métamorphose che apre finalmente la strada a molte pubblicazioni e mostre sul suo lavoro: nel 1994 all’ICA di Londra, nel 1995 al Museum of Modern Art di Parigi, nel 1997 al Ginza Artspace di Tokyo e Munich Pinakothek.[5] Un altro merito da tributare a François Leperlier, nella riscoperta dell'opera di Cahun, è quello di aver pubblicato l'inedito scritto autobiografico Confidences au miroir, elaborato tra 1945 e 1946 dopo la traumatica esperienza della prigionia.[6]
I principali riferimenti per questo testo sono i seguenti libri:
François Leperlier, “L’oeil en scène” introduzione a Claude Cahun, Photo Poche, Acted Sud, 2011
Rosalind Krauss, Celibi, Codice, Torino, 2004
Silvia Mazzucchelli, Oltre lo specchio. Claude Cahun e la pulsione fotografica, Johan & Levi editore, 2013
[2] Claude Cahun, “L’oeil en scène" introduzione di François Leperlier, Photo
Poche, Acted Sud, 2011
[4] R. Krauss, Celibi, Codice, Torino, 2004, p.26
[5] Claude Cahun, “L’oeil en scène” introduzione di François Leperlier, Photo
Poche, Acted Sud, 2011
[6] Federica Muzzarelli, Il corpo e l’azione.
Donne e fotografia tra otto e novecento, Atlante, Bologna, 2007
[7] Federica Muzzarelli, Il corpo e l’azione. Donne e fotografia tra otto e novecento, Atlante, Bologna, 2007
[8] Commento riportato in F. Leperlier, Claude Cahun, L'Exotisme intérieur, op.cit., p. 336.
[9] Federica Muzzarelli, Il corpo e l’azione.
Donne e fotografia tra otto e novecento, Atlante, Bologna, 2007 p.202
martedì 21 marzo 2023
La ragazza elettrificata
Atsuko Tanaka[1] (1932-2005), membro di Gutai e
straordinaria matriarca di tutte le performer è l’ideatrice del “Vestito
elettrico”, opera di ispirazione futurista e dada, opera-azione di un corpo
elettrificato. Si narra che l’artista abbia immaginato quest’opera ispirata
dalle luci di un’insegna pubblicitaria. <<Me ne stavo seduta – racconta
l’artista – su una panchina della stazione di Osaka, quando ho visto l’insegna
di una pubblicità di prodotti farmaceutici, scintillanti di luci al neon.
Trovato! Voglio fare un vestiti con i neon!>> [2] Quest’opera e il suo
intero lavoro rappresentano ancora oggi un riferimento importante per le artiste.
Lei è stata la prima fra le tante artiste del Sol Levante ad aprire l’arte alla
performance, al corpo come materia artistica. Tanaka introduce corpo e
movimento nell’arte plastica, associa una specie di seconda pelle fatta di un
grappolo di accensioni elettrificate, prefigura quanto la tecnologia si sarebbe
compenetrata alla sfera organica al punto da creare una sovrapposizione
inesorabile tra le nostre funzioni biologiche e gli apparati di provenienza
industriale. Oggi quasi nessuno esce di casa senza avere in tasca uno
smartphone o resta totalmente disconnesso volontariamente, le carte guida delle
città sono oggetti affettivi, chiunque preferisce un navigatore satellitare.
L’opera per la quale è più conosciuta “Il vestito elettrico” raccoglie le suggestioni
di una tecnologia che proprio in Giappone sarebbe esplosa nel culto di un
progresso febbrile, per abbinarlo a movenze corporali, alla dimensione
fisiologica, assimilato proprio nel bagaglio genetico di un’umanità bionica, un
Koden. Koden è un termine piuttosto recente, è la forma contratta di Ko =
individuo e denshi = elettronica e, testimonia la fusione di elementi organici
e inorganici attraverso l’uso di protesi tecnologiche, suona più o meno come
individuo elettrificato. Il lavoro di Tanaka è straordinariamente collegato,
nell’idea di utilizzare la luce elettrica e i suoni, alle intuizioni futuriste
di Luigi Russolo e Umberto Boccioni, sebbene l’interesse per la fusione natura
e artificio hanno già un fondamento nella società giapponese, così come il
concretizzarsi dell’impalpabile, l’interesse per oggetti insignificanti è dada,
seppure è presente nel Satori [3].
Taccuino
I principali riferimenti per questo testo sono i
seguenti libri:
Fabriano Fabbri, Lo zen e il Manga. Arte contemporanea giapponese,
Bruno Mondadori, Milano, 2009